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Quentin Tarantino caronte nell’inferno dantesco di Django

Sullo sfondo di scenari macabri à la Dead man di Jim Jarmush e accompagnato da un flauto senza tempo di Ennio Morricone, come un Caronte diabolico Quantin Tarantino ci accompagna nelle profondità peggiori dell’anima umana: giù all’inferno. Quentin non è una guida prudente e compassionevole come il Virgilio di Dante, ma non è meno sincero e schietto nel mostrare quello che di peggio l’anima umana contiene. A differenza di Virgilio, Quentin non è un Caronte moralizzante o parziale. Esso osserva silenzioso la violenza, non la esalta né la condanna, ma si limita a mostrarcela nella sua assoluta crudezza senza temere di portarci per questo negli anfratti più bui della nostra anima. Ormai lo fa con una professionalità quasi scientifica come deputato da una forza superiore a questo ben preciso compito accademico. Chissà qual è il motivo arcano che spinge il nostro nuovo idolo a rappresentare sempre la violenza in tutti i suoi dettagli più realistici e crudi. A quale archetipo risponde con queste immagini? Quale che sia la risposta, non gli si può negare il talento di saperlo fare con una maestria degna dei maggiori maestri che la storia del cinema conosca. Una categoria dove appartiene di santo diritto per il suo talento di entrare in un tema già ampliamente dibattuto, senza averlo mai fatto prima, e ciononostante offrire un film fantastico che nel genere è assolutamente nuuovo, originale e unico. È un dono che il Signore concede con grande parsimonia.

 La storia tragica e violenta del film ambientato in una specie di inferno in terra dove feroci colonialisti reazionari degli Stati Uniti del Sud usano ed abusano degli schiavi di colore a proprio giudizio e capriccio, come se si trattasse di merce. Una merce a volte di così poco valore, da servire anche come pasto vivente per i cani per il sollazzo del proprietario annoiato. No, quello di Quentin non è un inferno teologico, storico, psicologico o bellico. Il suo è la quintessenza della violenza nella sua folle purezza come gradino più basso dell’essere umano. Ma allora, ci chiediamo scioccati da questo vortice di cattiveria e furore, perché ci tiene tanto a mostrarci questi oscuri abissi deplorevoli? Se possiamo, probabilmente, presuppore con ragionevolezza che la risposta non vada cercata in una cartella psichiatrica, allora il motivo potrebbe essere proprio il piacere di portarci così in basso per donarci, poi, attraverso la Vendetta, una salita vorticosa verso l’alto e verso le vette della Giustezza e della Giustizia. Una specie di montagne russe della morale umana. Una vendetta che è sempre una Rivincita crudele del Bene sul Male e che poi si sublima in Redenzione del protagonista.

 Senz’altro un film da vedere, non solo per la perfezione dei dettagli, la forza dell’azzeccatissimo accompagnamento musicale, la storia intrigante e le interpretazioni di massimo livello, ma anche per il contributo che dà, naturalmente a modo suo, alla tematica del razzismo e, in senso più esteso, dei diritti umani. Un campo, quello politico e sociale, dove Tarantino entra d’improvviso girando la pistola come un pistolero sfonderebbe le porte di un tranquillo saloon scatenando il fine mondo. Non è certo la delicatezza o la prudenza il modo con cui ci aspettiamo che il genio di Le Iene, Pulp Fiction, Jacky Brown e poi ancora Kill Bill e possa fare il suo ingresso nel dibattito. Eppure l’effetto è assicurato, come testimoniato dalle reazioni al film proprio relative a questa tematica difficile e ancora non da tutti digerita. Già in Unglorious Bastards, d’altra, parte aveva dato un ottimo assaggio della sua capacità di coniugare il suo innato truce splatterismo con una rivistazione cinematografica neorealista della storia prossima con la sua violenza e il suo dolore.

 Dunque, la Salvezza che il nostro Caronte ci propone è un atto di forza, definitivo, finale, ultimo. Un gesto estremo di Resurrezione di fronte ad un male estremo. Non è certo una situazione che, fortunatamente, ci capita di vivere tutti i giorni. Eppure sono esistiti periodi della storia, come descritto in modo così preciso da Quentin, dove quello che oggi ci inorridisce era la norma e che sono rimasti impressi nella nostra memoria collettiva dalla quale, a suon di pistole e bombe, il regista americano ci chiede di tirarli fuori e di affrontarli di petto, costi quel che costi.

 Resta da chiedersi, allora, perché ci ponga questa domanda non richiesta? Questo problema non gradito? Al millenario problema della violenza Quentin sembra aver trovato la propria risposta non nella sua celebrazione o nel suo biasimo, ma nella sua sublimazione artistica. Un modo, forse, di fermarla, magari con un fermo immagine mozzafiato sullo schermo, cristallizzarla e, quindi, di controllarla e neutralizzarla. Ed è dunque quando ci rendiamo conto che proprio grazie a questa perfetta sublimazione artistica è possibile superare la violenza e il suo male, allora ci rendiamo conto che dobbiamo a Quentin un grande grazie per averci dato un altro strumento per capire chi siamo e come possiamo cercare di cambiare. Come i suoi eroi siamo liberi di scegliere, sta a noi decidere se in meglio o in peggio.

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