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Mazzini e Tomáš G. Masaryk precorritori dell’integrazione europea

Edvard Beneš (1884-1948), il migliore e più diretto discepolo di Tomáš  Masaryk, suo successore alla presidenza della repubblica ceco-slovaca nel 1935, sosteneva nella tesi di dottorato discussa all’Università di Digione nel 1908, che gli slavi della Monarchia e i cechi in particolare non potevano seguire le idee di nazionalità teorizzate nel 1851 dall’italiano Mancini[1] in quanto essi non volevano la distruzione dell’Austria. Per loro l’indipendenza non poteva essere un principio di diritto internazionale bensì di diritto pubblico interno, di diritto personale. Fin dal 1848, scriveva il giovane intellettuale ceco: « Les Slaves ne pouvaient donc voir dans ce principe une doctrine de droit international. Ils reconnurent bientôt et comme d’instinct, qu’il était impossible de morceller l’Autriche dans les petits États nationaux, qui seraient constamment menacés par les grands États limitrophes et qui finiraient par être engloutis dans le flot pangermanique. En outre, l’Autriche était composée des provinces historiques, mixtes au point de vue national, qui formaient toujours une unité administrative. Les traditions historiques étaient obstacle à toute division de la Bohême, par exemple. Et une territoriale division plus ou moins exacte était absolument impossible, puisque ces régions étaient mixtes. Les Slaves ne pouvaient donc aspirer à l’indépendance au point de vue international, mais à une indépendance d’une nature toute autre. »[2]

Ora non v’è chi non veda come tali affermazioni facciano giustizia di molti luoghi comuni sul nazionalismo dei popoli soggetti alla Monarchia quale causa scatenante della distruzione della stessa.  L’aveva già capito Mazzini, ma molta storiografia l’ha poi dimenticato. Nelle sue Lettere slave egli doveva constatare che: “mentre gli Slavi meridionali aspirano incessantemente il soffio dell’indipendenza e dell’avvenire, quelli del sistema boemo-moravo stanno pensosamente aggruppati intorno alle tombe dei padri loro, tentando di esumare fin le minime particelle della loro antica nazionalità. Si direbbe che la guerra è costata troppo cara a quei discendenti degli Ussiti, perché essi vi si tuffino imprudentemente, impreparati”[3].

In realtà anche l’appello di Niccolò Tommaseo lanciato dalle colonne della “Gazzetta di Venezia” nell’aprile 1848  Ai Croati e agli altri popoli slavi [4]  rimase pressoché inascoltato, salvo che per i polacchi.

Le posizioni austroslaviste erano ovviamente anche di Masaryk e tali rimasero fino allo scoppio della guerra mondiale. In lui però  vi fu una lenta evoluzione verso valutazioni via via sempre più critiche nei confronti della politica del governo di Vienna. A poco a poco la Casa d’Austria cessava di essere il punto di riferimento dei progetti federalisti, che pur erano continuati a manifestarsi anche dopo la scelta dualistica[5], e acquisiva piuttosto una coloritura di tipo aggressivo sulla spinta dell’imperialismo tedesco, coinvolgendosi pienamente nell’area balcanica. Tutto questo veniva osservato da Masaryk con crescente preoccupazione.  Ma chi era Tomáš Masaryk?

Mazzini ci è noto, e una ponderosa biografia appena uscita in Francia aiuta ulteriormente a capire il rilievo europeo e l’attualità di uno dei maggiori protagonisti della storia italiana di ogni tempo [6]. Presso lo stesso editore uscì nel 2002 un’altrettanto considerevole biografia del leader ceco ad opera di un giovane docente della Sorbona, Alain Soubigou[7]. Ne ho parlato in una lunga recensione sulla rivista “Slavia”[8] ma l’opera meriterebbe senz’altro di essere tradotta in italiano. Essa ha avuto un notevolissimo successo in Francia dove ha venduto più di diecimila copie a testimonianza di quanto ancora il pubblico d’Oltralpe sia legato alla memoria di quella Ceco-Slovachia del periodo tra le due guerre che fu fulcro di democrazia nell’Europa centrale e orientale dominata dai totalitarismi. Ma l’attività e la memoria di Masaryk, occultate dal fascismo, emersero anche in Italia subito dopo la caduta di Mussolini. Con la guerra ancora in corso, il 7 marzo 1945 (anniversario della nascita) la sua figura venne rievocata da parte di Benedetto Croce a Palazzo Venezia alla presenza del governo allora in carica[9]. Poi il prevalere anche nel nostro Paese di una cultura per molti aspetti legati all’ideologia sovietica non dette più spazio a personalità che il regime comunista instauratosi a Praga nel 1948 bollava come “esponenti borghesi traditi dai loro stessi alleati” (con il Patto di Monaco del 1938). Fu così che le opere di Masaryk e di Beneš vennero fatte sparire dalle biblioteche ceco-slovache e anche in Italia cadde un silenzio complice su questi due uomini politici.

Masaryk (1850–1937) era stato, per dirla con il maggior boemista anglosassone Harold Gordon Skilling, un “tenace anticonformista” nel periodo della Monarchia [10]. In un ambiente culturale conservatore e oscurantista come quello asburgico egli aveva combattuto per la libertà di pensiero, contro l’antisemitismo, per l’emancipazione femminile, e proprio per questo aveva assunto accanto al suo il cognome della moglie, l’americana di origine ugonotta Charlotte Garrigue, Si era fatto difensore dei deputati della coalizione serbo-croata alla Dieta di Zagabria accusati dalle autorità austriache di tradimento sulla base di falsi documenti. Ma aveva anche contribuito a smascherare alcuni “Manoscritti” in ceco medievale ritenuti frutto di un ritrovamento e invece opera del bibliotecario del Museo nazionale boemo. Essi erano divenuti il cavallo di battaglia dei nazionalisti cechi.

Lo scoppio della guerra l’aveva ben presto convinto della necessità di rompere decisamente con l’austroslavismo e di combattere per la distruzione della Monarchia. L’Italia  fu il primo Paese che gli dette il permesso di soggiorno quando, nel dicembre del 1914, decise di abbandonare Praga. Non era una scelta facile. Le potenze occidentali tentarono fino all’ultimo di salvare la compagine asburgica, lo stesso governo italiano, abbandonati da tempo gli ideali mazziniani, si era legato agli Imperi Centrali e dopo il periodo di neutralità entrerà in guerra contro l’Austria non tanto per abbatterla quanto piuttosto per sottrarle alcuni territori, peraltro vitali alla sua sopravvivenza.

La triade composta dai cechi Masaryk e Beneš e dallo slovaco Milan Rastislav  Štefánik [11] che fu l’artefice dell’indipendenza dei loro popoli, operò quindi in condizioni estremamente difficili.

A partire dal 1914 potremmo parlare di un Masaryk “mazziniano” che in questo modo riallinea i cechi sulle posizioni dei grandi movimenti risorgimentali di polacchi, ungheresi, romeni e serbi. Questa sua impostazione mazziniana viene a piena maturazione nell’opera programmatica che scriverà tra il 1917 e il 1918, nel corso del suo viaggio verso gli Stati Uniti attraverso la Russia, la Siberia e l’Oceano Pacifico, e che verrà pubblicato dapprima  a puntate su un bollettino, il “Československý deník”, e poi nel 1918 come volume in inglese e francese con il titolo rispettivamente The New Europe. The Slav Standpoint e L’Europe nouvelle [12] . In essa non si può non ravvisare, al di là dei pochi riferimenti diretti a Mazzini, una convergenza estremamente significativa con le idee del Grande Italiano, espresse in particolare nelle Lettere slave. Vi si riscontrano la stessa tensione morale e la stessa strategia politica di respiro europeistico che fanno di entrambi, in epoche e in circostanze diverse, gli antesignani di quel processo di integrazione del Continente al quale con molte difficoltà e contraddizioni solo negli ultimi decenni, dopo due sanguinose guerre mondiali, si è deciso di porre mano.

Ma vorrei prima di tutto evidenziare un terreno di convergenza che riguarda direttamente l’Italia circa un problema che fu (e che purtroppo è ancora) oggetto di acceso dibattito, vale a dire la “questione adriatica”. La posizione di Mazzini a questo proposito è chiara e inequivocabile. Egli individua “il vero obiettivo della vita internazionale d’Italia (…) nell’alleanza colla famiglia Slava” e subito dopo aggiunge: “I confini orientali d’Italia erano segnati fin da quando Dante scriveva:

……. ……     A Pola presso del Carnaro

Ch’Italia chiude e [ i ]suoi termini bagna.  (Inf., IX, 113).

L’Istria è nostra. Ma da Fiume, lungo la sponda orientale dell’Adriatico, fino al fiume Bojano sui confini con l’Albania, scende una zona sulla quale, tra le reliquie delle nostre colonie, predomina l’elemento Slavo.”[13]

Su questa lunghezza d’onda si era espresso anche Cavour: “Io non ignoro, aveva scritto, che nelle città lungo la costa v’hanno centri di popolazione italiana per razza ed aspirazioni. Ma nelle campagne gli abitanti sono di razza slava; e sarebbe inimicarsi gravemente i Croati, i Serbi, i Magiari, e tutte le popolazioni germaniche, il dimostrare di voler togliere a così vasta parte dell’Europa centrale ogni sbocco sul Mediterraneo.”[14]

Masaryk da parte sua ha in proposito una pagina de La Nuova Europa che avrebbe dovuto essere attentamente meditata dai politici italiani di allora e ci avrebbe evitato, come d’altronde le indicazioni di Mazzini e di Cavour, quelle sciagure di vaste dimensioni delle quali ancora oggi portiamo le conseguenze. “L’Italia, egli afferma, a ragione fa notare che la sua costa orientale, soprattutto dell’Adriatico, al contrario dei numerosi buoni porti dell’Istria e della Dalmazia, ha il grande svantaggio di essere priva di insenature. La Dalmazia in mano ad un’Austria sotto la guida della Germania sarebbe pericolosa per l’Italia, ma non lo sarà in mano alla Serbia e agli jugoslavi perché non hanno flotta, perché non avranno il denaro per costruirne una pericolosa e perché non hanno piani aggressivi. Trieste e Pola sono sufficienti all’Italia per la supremazia nell’Adriatico, riconosciuta del resto anche dalla Serbia (dichiarazione di Londra di Pašić); il principale problema dell’Italia è e sarà demografico ed economico.”[15]

Dalla corrispondenza tra Masaryk e Beneš veniamo inoltre a sapere che egli ha accenti critici rispetto alle pretese slovene e jugoslave: “Nei confronti degli italiani [dobbiamo essere] in maniera costante e coerente leali e favorevoli. Se toccano loro Trieste e l’Istria (metà) dobbiamo fare un sacrificio: per l’insieme degli slavi questo è meglio che salvare l’Austria”[16] “Gli sloveni soprattutto non capiscono che nel complesso la rottura [meglio: la disintegrazione (F.L.)] dell’Austria e la sconfitta della Germania per noi slavi, nell’insieme, significano più che la slovenizzazione di Gorizia etc.. Le città sono italiane.”[17]

La valutazione degli aspetti più generali del pensiero di Mazzini e Masaryk ci porta soprattutto a individuare il comune fondamento umanistico e cristiano sul quale essi poggiano l’idea di democrazia e di nazionalità.

In un articolo dell’agosto 1846 sul “People’s Journal” e riprodotto ora nella nuova edizione  dei Pensieri sulla democrazia in Europa, a cura di Salvo Mastellone, l’esule italiano afferma:” La  fronte che si leva verso il cielo non può nascondersi nella polvere davanti a ogni essere umano; l’anima che aspira al cielo non può marcire nell’ignoranza dei propri diritti, delle proprie forze, e delle proprie nobili origini. Non possiamo ammettere che nati per amarci l’un l’altro come fratelli, gli uomini possano essere divisi e resi ostili, egoisti e gelosi, città contro città, nazione contro nazione. Noi protestiamo, quindi, contro ogni ineguaglianza, contro ogni oppressione, dovunque siano praticate: perché noi non consideriamo nessuno come straniero; noi distinguiamo solo il giusto dall’ingiusto; gli amici dai nemici della legge di Dio. Questo costituisce l’essenza di ciò che gli uomini sono concordi nel chiamare movimento democratico.[18]

Analogamente Masaryk ne La Nuova Europa  ricorda che: “Dai principi umanistici derivano ugualmente la legittimazione e la necessità della democrazia, del socialismo e della nazionalità; allo stesso modo i leader e i teorici della democrazia e del socialismo così come i leader dei movimenti nazionali basano la giustificazione e la legittimità della democrazia, del socialismo e della nazionalità sul comandamento cristiano dell’amore per il prossimo. A dire il vero lo si potrebbe considerare un argomento tattico, ma, in realtà, l’unico fondamento della morale e, pertanto, della politica è il rispetto e l’amore degli uni per gli altri, si chiami pure filantropia, umanità, altruismo, simpatia, uguaglianza, solidarietà. La Rivoluzione francese ha proclamato solennemente i principi umanistici nel suo celebre motto: libertà, uguaglianza, fraternità, e li ha codificati come diritti dell’uomo e del cittadino. Il riconoscimento del valore della personalità umana garantisce valore civile e diritto all’esistenza dei corpi sociali organizzati: stati, chiese, nazioni, classi, partiti, ecc. e delle loro componenti.”[19]

Il terzo aspetto che accomuna i due pensatori è sicuramente la dimensione internazionalistica che deve assumere l’idea di nazione, per cui l’affermazione della propria identità e della propria peculiarità va intesa in sintonia e in un rapporto paritetico e di collaborazione con l’analogo processo degli altri popoli. In questo senso le pagine di Mazzini nel saggio “Nazionalità e cosmopolitismo” sono assai eloquenti. Vi si legge tra l’altro: “Il cosmopolitismo ha dunque finito l’opera sua. Un’altra comincia. Quella dell’Associazione dei Paesi; l’alleanza delle Nazioni per compiere in pace e amore la loro missione sulla terra; l’organizzazione dei Popoli liberi ed eguali, aiutantisi a vicenda, ciascuno approfittando delle  risorse che gli altri posseggono nella civiltà e nel progresso, e procedendo liberi da ogni vincolo verso la realizzazione di quel capitolo della Provvidenza di Dio che è iscritto sui luoghi della loro nascita, nelle loro tradizioni, nei loro idiomi nazionali, sulle loro sembianze. (…) Non sono più gli individui che devono firmare il nuovo patto; sono i Popoli liberi, con un nome, un ideale e una propria coscienza”.[20]

Nel già citato saggio “Politica internazionale” Mazzini ribadisce: “ Le Nazioni rappresentano le diverse facoltà umane chiamate a raggiungere associate, non confuse e sommerse l’una nell’altra, il fine comune e hanno eterno il diritto di vivere di vita propria: non si associa chi non vive e non comincia dall’affermare la propria  individualità .”[21]

Da parte sua Masaryk sostiene che: “Il principio di nazionalità va di pari passo col principio dell’internazionalismo. Le nazioni europee, prosegue, nella misura in cui si rendono indipendenti, tendono ad avvicinarsi nei loro rapporti economici, nelle comunicazioni e in generale per ciò che riguarda  la tecnica; ma l’individualizzazione e la centralizzazione si approfondiscono anche spiritualmente con lo scambio di idee e dell’intera cultura (conoscenza delle lingue straniere, traduzioni). L’Europa e il genere umano si unificano sempre di più.” Riafferma quindi che: “ Tra la nazionalità e l’internazionalismo non c’è antagonismo, al contrario, c’è accordo: le nazioni sono l’organo naturale dell’umanità. Il genere umano non è qualcosa che sta al di sopra della nazione, è l’organizzazione delle singole nazioni. Se, di conseguenza, le singole nazioni lottano per la loro indipendenza e cercano di distruggere gli stati  di cui fino ad oggi hanno fatto parte, questa non è una lotta contro l’internazionalismo e l’umanità, ma una lotta contro gli oppressori che usano gli stati con lo scopo di livellare e di imporre un’uniformità politica.” Infine preconizza: “L’umanità non tende all’uniformità, bensì all’unità; e proprio l’indipendenza delle nazioni renderà possibile l’associazione organica, la federazione delle nazioni, dell’Europa e di tutta l’umanità.”[22]

Si potrebbe chiosare a questo proposito che purtroppo le società attuali sono piuttosto spinte verso l’uniformità, la tendenza è ad omologarsi a un unico modello che è quello anglo-americano, mentre l’unità è ancora lontana.

Sulla necessità di un’integrazione tra i popoli dell’Europa centrale, intesa questa come lo spazio che sta tra la Germania e la Russia e tra il Baltico e l’Egeo, le idee di Mazzini e Masaryk  convergono nettamente anche se, date le diverse epoche in cui scrivono, le varie forme di aggregazione sono viste dal primo in funzione antirussa, dal secondo in chiave antigermanica. Ma appare indubbio per entrambi  che da soli i singoli popoli che vivono nell’area non possono portare avanti un’ incisiva azione internazionale.

Nel saggio “Missione italiana – vita internazionale” del 1866 Mazzini auspica una ridefinizione di quella parte del Continente e una presenza dell’Italia in tale contesto secondo le seguenti linee: “ Una Confederazione Danubiana sostituita all’Impero d’Austria: una Confederazione Slavo-Ellenica sostituita all’Impero turco in Europa: Costantinopoli città libera, centro anfizionico della seconda Confederazione: alleanza tra le due Confederazioni e l’Italia: è quello l’avvenire.”[23]

In “Politica internazionale” l’Autore, di fronte al pericolo di un’espansione zarista verso l’Europa centrale, dichiara decisamente di preferire: “40 milioni d’uomini liberi, ordinati dal Baltico all’Adriatico a barriera contro il dispotismo russo [piuttosto che] cento milioni di schiavi dipendenti da un’unica e tirannica volontà.”[24]

Masaryk, convinto che il pericolo tedesco non finirà anche dopo la sconfitta degli Imperi centrali (e in questo, alla luce di quanto poi avvenne, non si può non riconoscergli una notevole lungimiranza) , parla della necessità  di creare una barriera slava, latina e di altri popoli contro tale minaccia. “La catena delle nazioni libere opposta al pangermanesimo dal Baltico alla Francia è un dato della storia e della geografia: gli estoni, i lettoni e i lituani, i polacchi, i cechi con gli slovachi, i serbi con i croati e gli sloveni, gli italiani, la Svizzera (soprattutto la parte italiana e francese).

Forse anche i magiari, resi più saggi da questa guerra, capiranno che slavi e latini non saranno loro nemici se essi sapranno limitarsi alle proprie forze.”[25]

Infine se, come abbiamo visto, il giudizio di Mazzini sullo zarismo è univoco e senza appello, altrettanto lo è per Masaryk, il quale però assiste anche all’affermarsi del bolscevismo e pure su questo fenomeno la sua valutazione è assolutamente negativa, e confermata poi dai fatti: “Hanno eliminato lo zar, ma non si sono sbarazzati dello zarismo,”[26]

Il profondo anelito verso un mondo migliore, pacifico e solidale, quale promana da queste due grandi personalità, può suscitare perplessità presso i cultori della Realpolitik, non va dimenticato però che analoghe considerazioni, in particolare circa la necessità di trovare delle forme di integrazione europea dopo la catastrofe della guerra mondiale, venivano espresse, pur partendo da esperienze molto diverse, da due prestigiosi esponenti dell’economia italiana, vale a dire Giovanni Agnelli, il fondatore della FIAT, e Attilio Cabiati, rappresentante assieme a Einaudi, Pantaleoni, Barone e Pareto di una stagione del pensiero economico italiano sino ad oggi rimasta ineguagliata.

Essi espongono il loro pensiero in un agile volume dal titolo Federazione europea o Lega delle Nazioni? che vide  la luce nel 1918 e che è stato di recente opportunamente ristampato con una presentazione di Giovanni Agnelli jr. e un’introduzione di Mario Monti[27], ma non ha ottenuto la dovuta attenzione. Gli Autori si pongono in una prospettiva di superamento dell’idea di nazione e guardano piuttosto all’esempio del Commonwealth britannico e degli Stati Uniti d’America: “Il principio del Commonwealth è antichissimo e conta oggi esempi luminosi al suo attivo. L’Italia è sorta da ventidue Stati; la Germania da trecentosessanta minuscole sovranità; gli Stati Uniti d’America riuniscono in un vincolo di libertà quarantotto Stati, di razze diversissime, disposti su un’area pari ai 10/11 dell’intera Europa; l’Inghilterra raccoglie, in un’area di 12.747.324 miglia quadrate, ben 433 milioni di anime, la cui partecipazione attiva alle cose imperiali va diventando sempre più energica e vasta.”[28] Essi pertanto affermano che: “Mentre il principio di nazionalità, considerato come base per la costruzione dello Stato, sembra aver esaurito la sua funzione politica, il concetto di un vincolo morale e giuridico ognora più stretto fra gli Stati d’Europa appare sotto forma di un vero imperativo categorico alle menti meno illusionistiche del mondo: quelle dei diplomatici (…) Gli è che le cause storiche, sociali, economiche e politiche che la guerra ha portato a maturazione, sembrano cospirare a favore del grande ideale.”[29]

Purtroppo nemmeno questo secondo progetto trovò pratica applicazione nell’immediato e il dilemma ancora oggi resta aperto se l’Europa possa diventare una Federazione o una Lega delle Nazioni, ma ormai non v’è dubbio che la pacifica convivenza tra i popoli che l’abitano non ha alternativa. In un articolo dal significativo titolo Du bon usage d’une Europe sans âme l’autorevole esponente socialista francese Michel Rocard indica proprio nella creazione di uno spazio caratterizzato dalla  pace e dal diritto l’obiettivo minimo raggiunto dall’Unione Europea. « Il faut rappeler inlassablement, sottolinea l’Autore,  que la paix n’est ni fatale ni même naturelle en Europe. Ce ‘machin’ à 25 nations qui rend toute guerre impossible entre elles est historiquement déjà miraculeux. »[30]

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[1] Pasquale Stanislao Mancini aveva dato fondamento giuridico al nostro Risorgimento nella celebre prolusione, tenuta all’Università di Torino nel 1851, dal titolo: La nazionalità come fonte del diritto delle genti.

[2] Edvard Beneš, Le problème autrichien et la question tchèque. Étude sur les luttes politiques des nationalités slaves en Autriche, Paris, V. Giard & E. Brière,1908, p. 106.

[3] Giuseppe Mazzini, Lettere slave, con prefazione di Fabrizio Canfora, Bari, Laterza,1939, p.45.

[4] Esso si concludeva così “Sorgete, Croati, Boemi, Polacchi, fratelli! Delle catene fate spade, del giogo bastone a difesa. Voi, sì lungamente curvati sotto il bastone austriaco, rizzatevi: vincerete col cenno. Rizzatevi senz’odio e senza paura. Il Dio delle nazioni è con voi.” “Gazzetta di Venezia”, 5 aprile 1848.

[5] Ricordiamo in particolare il disegno organico espresso in questo senso nell’opera del romeno Aurel C. Popovici  Die vereinigten Staaten von Gross-Österreich (Leipzig, 1906), recentemente tradotto in romeno Stat şi Natiune. Statele-Unite ale Austriei-Mari. Studii politice în vederea rezolvării problemei naţionale şi a crizelor constituţionale din Austro-Ungaria, Bucureşti, Albatros, 1997.

[6] Jean-Yves Frétigné, Giuseppe Mazzini. Père de l’unité italienne, Paris, Fayard, 2006.

[7] Alain Soubigou, Thomas Masaryk, Paris, Fayard, 2002.

[8] Francesco Leoncini, Tomáš Masaryk rivisitato, in “Slavia”, XIV,2005,I,  pp. 3-9.

[9] Il testo venne pubblicato nell’aprile dello stesso anno  su “Nuova Antologia” ed è stato di recente  ristampato, con traduzione ceca a fronte, su “La Nuova Rivista Italiana di Praga” , VI, 2000,II -2001,I, pp. 70-81, con presentazione di Francesco Leoncini.

[10] Cfr.  Harold Gordon Skilling, T.G. Masaryk: Against the Current 1882-1914, London, Macmillan, 1994.

[11] (1880-1919). Figlio di un pastore protestante, abbandonò il suo Paese fin dai primi anni del nuovo secolo per approfondire con successo gli studi di astronomia e divenne ben presto una personalità di rilievo internazionale. Collaboratore all’Osservatorio di Meudon del fondatore stesso dell’astrofisica, Jules Janssen, viaggiò per le sue ricerche nei cinque continenti. Naturalizzato francese nel 1912 e arruolatosi nell’aeronautica all’inizio della guerra, ricevette importanti incarichi dal Maresciallo Foch. Fu perciò lui a introdurre Masaryk e Beneš negli ambienti politico-militari francesi e italiani. Su incarico del Consiglio nazionale ceco-slovaco di Parigi organizzò in Italia  le formazioni  militari che combatterono a fianco delle nostre truppe nelle battaglie finali del 1918. Costituita da prigionieri e disertori cechi e slovachi  sul nostro fronte, la Legione, che raggiunse circa le diciottomila unità, ricevette il riconoscimento ufficiale con la Convenzione del 21 aprile 1918 tra Štefánik e Vittorio Emanuele Orlando.

I rapporti dell’esponente militare con Beneš non furono però mai dei migliori e quando, alla fine della guerra, l’aereo di Štefánik  precipitò in circostanze non ancora chiarite durante il volo di ritorno a Bratislava dall’Italia, il caso assunse subito i connotati del giallo politico. Gravò sempre su Beneš, da parte degli slovachi, il sospetto che avesse voluto sbarazzarsi di un socio scomodo.

[12] La traduzione italiana La Nuova Europa. Il punto di vista slavo, condotta sul testo ceco del 1920 e che costituisce anche la prima edizione critica dell’opera, è apparsa a cura dello scrivente presso le Edizioni Studio Tesi (Pordenone- Padova)  nel 1997. Ora il volume è distribuito dalle Edizioni Mediterranee di Roma.

[13] Giuseppe Mazzini, Lettere…, p.122 (“Politica internazionale”,1871).

[14] Cavour al commissario per le Marche  Valerio,28 dicembre 1860. Cfr. Luciano Monzali, Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento alla Grande Guerra, Firenze, Le Lettere, 2004, p.35.

[15] Tomáš G. Masaryk, La Nuova…, p. 180.

[16] Masaryk a Beneš, 31 ottobre 1918. Cfr. Francesco Caccamo, L’Italia nella corrispondenza tra Masaryk e Beneš all’indomani della Prima guerra mondiale, in “Clio”,XXXII, 1996, III, p. 494. Testo in: Vzájemná neoficiální korespondence T.G. Masaryka s Eduardem Benešem z doby pařižských mírových jednání (řijen 1918 – prosinec 1919), a cura di Zdeněk Šolle, II parte, Lettere, Praha, Archiv Akademie věd ČR, 1994, p. 122.

[17] Masaryk a Beneš, 7 novembre 1918. Cfr. Francesco Caccamo, L’Italia…, p. 494. Testo in: Vzájemná…, pp. 133-134.

Cfr. pure: Marjeta Keršič-Svetel, Češko-slovenski stiki med svetovnima vojnama, Ljubljana, Zveza zgodovinskih društev Slovenije, 1996, p.11.

[18] Giuseppe Mazzini, Pensieri sulla democrazia in Europa. Nuova edizione. Traduzione e cura di Salvo Mastellone, Milano, Feltrinelli, 2005, p.69.

[19] Tomáš G. Masaryk, La Nuova…, pp. 54-55.

[20] Giuseppe Mazzini, Pensieri…, pp. 132-133.

[21] Id. Lettere…, p. 117.

[22] Tomáš G. Masaryk, La Nuova…, pp. 66-67.

[23] Giuseppe Mazzini, Lettere…, p.104.

[24] Ibidem, p. 124.

[25] Tomáš G. Masaryk, La Nuova…, pp. 142-143.

[26] Ibidem, p. 112.

[27] Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1995

[28] Ibidem, p. 91.

[29] Ibidem, p. 93.

[30] Michel Rocard, Du bon usage d’une Europe sans âme,  in  « Le Monde »,  28 novembre 2003, pp. 1/17.

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