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La prima luce di Neruda, di Ruggero Cappuccio, Feltrinelli Editore, 2016

7316353_1948006La prima luce di Neruda di Ruggero Cappuccio è un romanzo di grande evocazione simbolica e di rara, rarissima intensità. Come in una sinfonia regolata da rifrangenze foniche, carica di calamitanti onde melodiche, sembrano modularsi, nella partitura ritmica della prosa, tre costanti tonali: una struggente liricità, una crepuscolare malinconia, un grande realismo visionario.

 Il romanzo, un’istantanea tragica e insieme romantica della vita di Pablo Neruda, nasce dalle suggestioni dell’esilio del poeta cileno nel 1952 sull’isola di Capri, per un ordine di arresto del dittatore Gonzáles Videla. L’isola  diventa rifugio d’amore per Neruda e Matilde Urrutia, terza e ultima moglie a cui sono dedicati i celebri Versi  del Capitano. Il poeta in realtà era già stato sposato una prima volta con Maryka Antonieta Hagenaar; la seconda con Delia del Carril, una pittrice argentina di vent’anni più anziana di lui.

Con Matilde, cantante argentina, si erano conosciuti durante un concerto, nel parco forestale di Santiago del Cile. Neruda aveva 42 anni, la cantante 34. Si rividero tre anni dopo a Città del Messico e si sposarono civilmente nel ’66.

  Il rapporto tra i due amanti non si risolve però in una  semplice storia d’amore, perché vi risultano co-implicati più motivi, come l’intima relazione tra poesia e canto, il contrasto tra amore e morte e l’osmosi tra amore e natura, natura che qui  è spesso metaforizzata, come del resto negli altri romanzi di Cappuccio, “La notte dei due silenzi” e “Fuoco su Napoli”. Anche per questo le scene tra i due amanti assumono quasi sempre un aspetto ieratico e le parole d’amore, pur nella loro apparente levità, si colorano di una densità lirica travolgente:

 «[…] Da quando ho conosciuto Pablo ho dovuto capire che ero nell’utero del mondo, che dovevo nascere, che se Dio mi aveva chiamata ad attraversare la vita di un uomo così particolare, io dovevo farlo. Sto comprendendo che lui è la straordinaria lente di ingrandimento che l’universo mi regala per leggere dentro me stessa. È la mia occasione per capire qual è veramente la donna che vive in fondo alla mia anima.» (R. Cappuccio,  La prima luce di Neruda, p. 112).

 Le vicende sono raccontate in prima persona, dalla voce del poeta e dalla voce di Matilde che qui rappresenta quasi la sua eco, attraverso le sonorità che si rifrangono nelle note del suo canto lirico:

 «Matilde, la raccolta di versi che sto preparando per te vuol dire che anche tu sei la mia eco. Tu sai far risuonare la mia malinconia, il mio desiderio di giustizia, la mia inquietudine. E facendo mi dai la possibilità di contemplare il mio caos. L’eco mi restituisce la nostra voce. Finalmente possiamo sentirla senza essere confusi dallo sforzo che compiamo per emetterla. Finalmente possiamo valutarla, goderla. Ma tu sai fare anche un altro miracolo: ogni giorno fai l’eco del mio silenzio» (pp.142-143).

 Si intrecciano poi due tempi storici della vita di Neruda, il 1952 e il 1973, in due diversi luoghi, uno a16114440_982290355239458_5694836008336466880_n Capri, uno a Santiago del Cile. Il passato, il tempo perduto che ridesta echi indelebili negli ultimi istanti della vita di Neruda, viene recuperato analetticamente quando, a distanza di vent’anni dall’esilio dorato di Capri, altri militari, a Isla Negra in Cile, bussano alla porta del poeta ancora perseguitato dal regime.

 Come l’ultimo grido di Allende, anche quello di Neruda risuona in limine mortis, in un’agonia mitigata però dall’amore. Così, in un sensuale intreccio tra eros e thanatos, la morte diventa di nuovo, come in altre opere di Cappuccio e in primis in Desideri mortali (1997), un altro “oratorio profano”, in cui allestire un tributo d’amore per un poeta “tormentato dal sogno della giustizia”.

 Per quanto piegato al volo visionario, il romanzo appare gremitissimo di profili noti, perché sono evocati e rappresentati altri intellettuali dell’epoca, che si opposero all’estradizione del poeta cileno, come Alberto Moravia, Elsa Morante, Renato Guttuso, Carlo Levi ed Edwin Cerio, l’ingegnere navale che ospitò Neruda nella sua dimora caprese.

 Diviso, e quasi in bilico, tra concreti e puntuali dati storici e invenzione poetica, il romanzo traccia come un profilo biografico visionario, dove il dato reale e il documento storico si contaminano in una perfetta osmosi, in funzione dell’invenzione poetica.

La prima luce di Neruda, che appare dunque come una biografia visionaria (in parte simile ad altre trasfigurazioni poetiche a cui ha dato vita l’autore, come Caravaggio, Palo Borsellino o Michele Cervante), sembra inoltre quasi tracciare come un’auxesis, un’amplificazione immaginifica di un sentimento intenso – e il “sentimento” è forse il centro nodale del romanzo – nutrito per Matilde Urritia, la donna che amplifica col canto le liriche del poeta:

  «Ero disorientata, ero dispersa. Ed è strana, molto strana, la sensazione di essere dispersi dentro se stessi. Lo capisci, Pablo? Le tue parole creavano sentimenti dentro me. Ma io ero il tuo opposto, perché in me erano i sentimenti a creare le parole» (p. 93).

  Ma il “sentimento” è tale anche per l’immensa pietas che Neruda riversa sull’umanità intera, umanità che si incarna metonimicamente nell’umile innocenza di un bambino di Capri di otto anni, Camillo, che chiederà al poeta: «Mi potete imparare a leggere?» (ibidem, p. 136).

Anche attraverso queste testimonianze poeticamente trasfigurate e indissolubilmente legate al cronotopo del romanzo (la Napoli degli anni Cinquanta), la storia del Cile e  dell’Italia intera si intreccia così con la storia di un poeta e dei paria, gli ultimi tra gli ultimi, umili pescatori, vetturini o camerieri che popolano l’isola e non solo.

Fratellanza e socialità, filantropismo e tensione etica, dominano nei gesti, nelle parole di Neruda, intrise di umanissima pietà anche nei confronti di chi lo perseguita.

Nel coro indifeso degli ultimi, assumono rilevanza alcune incisive, seppur brevi epifanie, come il personaggio emblematico del bambino, che diventa emblematicamente “parte per il tutto”, rispetto a tutti gli uomini “nati poveri” come Neruda.

 15977349_982288881906272_6250376068418392431_nIn ogni pagina del romanzo in verità circola e domina questa visione ancipite della parola poetica, che è parola d’amore più che eros, sentimento puro, ma anche agapè, grazia e amore per la verità e la giustizia, còlta nella più pura dimensione umanitaria. In più passi del romanzo, si percepisce questo forte sentimento di intima  commozione del poeta nei confronti degli umili, ricordati del resto nel suo  j’accuse contro la recita amara e dissonante degli oppressori che costò al poeta l’espulsione dal Cile.

 La Prima luce di Neruda è per questo opera dal taglio misurato, omogenea nelle partiture dei sedici capitoli e si presenta come orchestrata con intonazione piena, circolare, abbondante di timbri dimessi, pastosi, satura di pausate note che si legano al recupero di frammenti di quella che fu una stagione felice della vita di Neruda, un’ armonia perduta, qui quasi stilizzata nella  visualizzazione mnesica di Neruda.

Sul piano formale, anche considerando la lingua di scena e lo stile degli altri romanzi di Cappuccio, è evidente come le scelte stilistiche sembrino lontanissime da quegli “stili provvisori”  (M. Dardano, Stili provvisori. La lingua della narrativa italiana d’oggi, Carocci, Roma, 2010) di cui pure abbonda certa narrativa contemporanea, dal momento che sono presenti scelte lessicali ricercate, anche sapientemente orchestrate dal punto di vista fonico-timbrico e tipiche di quell’ “italiano d’autore” di cui parla V. Coletti (cfr. Italiano d’autore, Marietti, Genova, 1989).

Cappuccio recupera dal “solco della tradizione”, come del resto anche per il teatro, tutta una serie di costrutti anche a volte rari, o comunque avvertiti come forme fortemente letterarie: innanzitutto recupera, come Giuseppe Pontiggia, l’accusativo alla greca (in verità qui presente in più basse percentuali rispetto al primo romanzo “La notte dei due silenzi”); poi fa ricorso a una sintassi e a un lessico elegante e musicale, che sembra ricordare la prosa dei romanzi di Bufalino e Consolo. In generale predilige una subordinazione di impianto classico, con incastonature di subordinate che si snodano, o si spezzano e si riallacciano in sequenze di notevole ampiezza e grado. Rispetto all’alto coefficiente di letterarietà, è questo un romanzo, come del resto “Fuoco su Napoli”, che si contamina anche con l’elemento spurio del parlato, i metaplasmi e le imperfette costruzioni del parlato spontaneo, come del dialetto napoletano stilizzato nei dialoghi. Aldilà della presenza di sequenze interamente dialogate, con scambi di battute che sembrano imitare i testi teatrali, nell’ovvia interferenza espressiva tra i due codici (teatro e narrativa), in questo romanzo prevalgono però soprattutto l’abbandono lirico e le movenze poetiche, che dominano in una prosa dove il ritmo, le rime nascoste, le assonanze creano continui echi sonori, come dimostra questo passo:

  «Sì, Neruda, sei il mio oceano. Lo sei da sempre. Penso che tu sei il mio oceano da quando eroDSC_8384 bambina. Non ridere, è vero. Penso che tu sia il mio oceano da prima che io nascessi. Mi chiedi di essere sincera, perché solo la verità può aiutarti a vivere  un momento di più. E allora lo sarò. Lo sarò. L’incontro con un essere umano, se è un vero incontro, ci chiama ad assistere a una specie di rivelazione. E non è tanto difficile affrontare la potenza dell’altro, quanto sostenere la potenza che si risveglia in noi. E’ difficile trovare il coraggio per vivere con una parte del nostro essere  che non conoscevamo, una parte nuova, che ci cresce dentro, che fiorisce come una pianta  e moltiplica i suoi rami e le sue foglie. E’ una pianta che giorno dopo giorno modifica il perimetro della nostra terra, fino a mutarlo del tutto. Mi è successo questo, Pablo. Quella terra che era la mia anima, e che credevo di conoscere bene, ha scoperto radici nuove quando ti ho incontrato.» (p.91).

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La prima luce di Neruda (Feltrinelli, 2016) è l’ultimo romanzo di Ruggero Cappuccio.

 Pablo Neruda
Il poeta cileno Pablo Neruda nacque a Parral nel 1904 e morì a Santiago nel ’73. Nel 1971 vinse il Premio Nobel per la Letteratura. Tra le sue opere, «España en el corazón», «Canto general» e «Memorial de Isla Negra».

 Ruggero Cappuccio

Romanziere, drammaturgo regista, saggista ha pubblicato tre romanzi e numerose opere teatrali; ha curato regie liriche, anche con Riccardo Muti. Ha curato la regia e la sceneggiatura di numerosi film, tra cui si ricorda il più recente Veleni (con la regia Nadia Baldi); ha realizzato e interpretato un docufilm per Rai-Storia dedicato a Paolo Borsellino. Ha vinto prestigiosi premi teatrali. Ha fondato con Nadia Baldi “Teatro Segreto”, organismo di produzione e promozione artistica teso a garantire l’autonomia dei progetti teatrali e della loro realizzazione. E’ Direttore del “Festival dell’Ambiente, delle Scienze e delle Arti”,  che si svolge nei mesi estivi nel Cilento e

dal 2016 è “Direttore del Napoli Teatro Festival”.

 

Testo di Carmela Lucia, Fotografie di Angelo Marra

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