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Cala il sipario sulla VIII edizione del Festival centro-europeo del cinema italiano, il MittelCinemaFest 2020.

Di Emanuele Ruggiero

Si è conclusa in Repubblica Ceca l’ultima edizione del MittelCinemaFest 2020, Festival del nuovo cinema italiano.

Nel rispetto delle norme anti-Covid l’edizione di quest’anno si è tenuta per la prima volta in versione online e gratuita sulle piattaforme MYmovies.it e Moje kino LIVE, permettendo di allargare in modo esponenziale la platea degli spettatori e promuovendo il cinema italiano in tutto il territorio della Repubblica Ceca.

La rassegna di quest’anno ha proposto una selezione di film drammatici, documentari e commedie di registi conosciuti e giovani autori emergenti, offrendo uno spaccato della produzione cinematografica italiana più recente.

La kermesse si è aperta con Lacci. Daniele Luchetti è uno dei registi italiani più bravi nel dirigere gli attori, ma nel film Alba Rohrwacher si limita a fare Alba Rohrwacher e Lo Cascio è monocorde. Notevoli Adriano Giannini e Giovanna Mezzogiorno e la coppia Laura Morante-Silvio Orlando, che restano però comunque troppo uguali a sé stessi. A mio avviso la narrazione non riesce a reggere il peso emotivo del dramma familiare e ad assumere caratteri “universali”. Il film mi è sembrato in fondo pervaso da un certo provincialismo.

Cosa sarà di Francesco Bruni cattura poco a poco: dopo i primi 40 minuti in cui stenta a ingranare parte con tutta la sua forza. Nonostante qualche caduta enfatica e macchiettistica, non mancano scelte interessanti nella sceneggiatura. Per esempio i flashback ben inseriti nelle scene della chemioterapia. I personaggi femminili sono scritti e recitati egregiamente, Kim Rossi Stuart ha un ruolo che gli sta a pennello (lo ha scritto lui). Ed è inoltre un film generoso, di pancia, senza filtri.

Volevo nascondermi, il film su Ligabue, è bellissimo e intenso grazie all’enorme duttilità di Elio Germano (Orso d’argento 2020 come Miglior attore), che ci regala una magnifica prova attoriale, e alla regia accurata di Giorgio Diritti. Pieno di umanità, penetrante, minuzioso nel dipingere l’unicità spirituale dell’artista, ma sufficientemente aperto da ambire a significati più ampi. Un film di levatura artistica superiore anche da un punto di vista tecnico, con una fotografia immensa. La mano di Diritti è altamente professionale. A lui, oltre che allo splendido Germano, si devono momenti sognanti, atmosfere rarefatte e coinvolgenti degne di un cinema di spessore che per trasmettere emozioni non deve necessariamente aiutarsi con la storia. Mi ha ricordato il Van Gogh di Schnabel.

Uno degli errori de I Predatori di Pietro Castellitto (premiato a Venezia come Migliore sceneggiatura nella sezione Orizzonti) è di mettere troppa carne al fuoco: le sottotrame vanno e vengono, perdendosi. Il pregio del film, il suo essere folle, surreale e onirico, viene oscurato dai vezzi registici: nei primi 40 minuti la camera, come in un puro esercizio di stile, cerca inquadrature interessanti, ma non funzionali alla trama: primissimi piani, tagli dall’alto e dal basso, un piano sequenza iniziale ingiustificato che segue le comparse per arrivare a uno dei personaggi della prima scena. Tutte scelte che interferiscono con la narrazione invece di assisterla. Citando Cassavetes “…Per me tutta questa tecnica non ha nulla a che vedere coi contenuti.”

Neanche i “colpi di scena” o il classico clip musicale a metà film riescono renderlo meno prolisso.

Il cast, che dovrebbe essere ottimo grazie anche alla coppia strehleriana/ronconiana Massimo Popolizio – Manuela Mandracchia risulta invece troppo sopra le righe (si veda la scena del compleanno della nonna).

Le interpretazioni migliori, per contro, sono quelle di Marzia Ubaldi, Liliana Fiorelli e Giulia Petrini, proprio perché rinunciano agli istrionismi per lasciar trapelare un dolore autentico e una maggiore riconoscibilità umana.

Degno di nota solo il finale, negli ultimi 10 minuti.

film di Mattia Torre

Figli, di Giuseppe Bonito, è la classica amabile commedia italiana di questi anni, con la coppia Cortellesi – Mastandrea, sinonimo di sicurezza e vitalità comica. Godibile, girato con spunti anche interessanti nella narrazione, nonostante la voce narrante in terza persona abbia un che di già visto.

Un film intelligente, che si muove tra la commedia e il dramma esistenziale, spingendo i toni oltre il cinismo, oltre il realismo, oltre il sarcasmo, usando le leve sottili del paradosso e del surreale. Con un ottimo cast di coprotagonisti, come Paolo Calabresi, Stefano Fresi, Valerio Aprea.

Favolacce (Orso d’argento alla Berlinale 2020 per la migliore sceneggiatura) merita un discorso a parte. È per molti uno dei migliori film italiani degli ultimi tempi: un racconto senza scampo ambientato in una provincia inesistente. Sicuramente un film che fa riflettere, con una scrittura feroce, una narrazione diretta, priva di mezze misure e, per certi versi, brutale, che spesso lascia lo spettatore senza fiato. È proprio la sua violenza senza giri di parole a rimanergli impressa: racconta concretamente la vita senza fare alcuno sconto. Un film con una sensibilissima attenzione al dettaglio, pessimistico, con un beffardo senso del tragico e dell’inevitabile.

Una componente interessante del programma sono stati due documentari, totalmente diversi tra loro.

Life as a B Movie: Piero Vivarelli di Fabrizio Laurenti e Niccolò Vivarelli segue i meccanismi del biopic classico, ripercorrendo la storia di Vivarelli, regista di B-movies, personaggio eclettico della musica e del Cinema degli anni del boom economico. È un buon mix di interviste, materiale d’archivio, fotografie, anche politically correct. Forse più una operazione economica che un prodotto di creazione. Un prodotto che definirei “carino”.

Maledetto Modigliani di Valeria Parisi risulta invece più un documentario di creazione, molto intenso, ben girato e montato, che segue i nuovi canoni del genere, dove la parte di reenactment, ricostruzione storica, è molto presente.

Quasi un docufilm, dove la voce narrante è quella di Jeanne Hébuterne, l’ultima amante di Modigliani. È proprio grazie a lei, qui impersonata da un’attrice, che riviviamo i principali eventi che hanno caratterizzato la breve esistenza dell’artista, addentrandoci nelle sue vicende travagliate, scoprendone passioni, affanni e desideri. Un film in distribuzione e ancora visibile, per chi volesse, su https://aerovod.cz/.

Le sorelle Macaluso di Emma Dante mi ha spiazzato. Un film femminile, di donne e per le donne, con un suo target. Tratto da una pièce teatrale, costruisce la storia come a teatro (e purtroppo si nota), con i tre atti classici. Qualcuno al proposito cita Almodovar o Tarkovskij, ma quest’opera, nella sua tragedia, rimane drammaticamente, epicamente vuota.

Un film sulla vita, i conflitti, i ricordi, ma asciutto nella sua poca emozionalità, soffocato dai meccanismi della narrazione. I personaggi sono quasi attori-fantasmi, come i disadattati dei Giganti delle Montagna, per rimandare a Luigi Pirandello, conterraneo della regista. Un film per certi versi fastidioso nell’ossequiosa e traboccante descrizione dei dettagli, anche i più crudi, che rimangono immotivati e dove per necessità tutti gli elementi sono immessi o ricordati velocemente, mentre avrebbero avuto bisogno di maggiore approfondimento e a teatro sarebbero stati forse discussi maggiormente consentendo di delineare meglio i profili psicologici delle sorelle.

La parte migliore del film alla fine rimane quella della loro giovinezza spensierata, nonostante la povertà e lo squallore, la parte in cui il film è più vero e naturale.

A concludere il festival altre due pellicole pluripremiate: La dea fortuna di Ferzan Ozpetek (David di Donatello 2020 a Jasmine Trinca come Migliore attrice e Migliore Canzone Originale) e Padrenostro di Claudio Noce (Coppa Volpi al festival di Venezia per il Miglior Attore a Pierfrancesco Favino).

Padre nostro è forse una delle sorprese più positive della rassegna, un film che racconta una storia difficile, drammatica di magistrati ed attentati, durante gli anni di piombo ma attraverso gli occhi di un bambino e del suo alter ego ed amico adolescente (immaginario o reale che sia). Entrambi sono la chiave vincente del film, che pesca nelle emozioni dei ricordi personali mettendo in scena angosce e desideri, ma anche gli spettri di un rimosso che interessa tanto il regista quanto parte degli spettatori. Esperienza privata come sineddoche di quella vissuta dall’intera nazione in cui gesti e paure di una famiglia colpita in prima persona dall’odio e dalla ferocia di quegli anni diventano lo specchio di una guerra dichiarata allo Stato e ai suoi più impavidi difensori.

Tecnicamente, il film è forse un po’ esagerato nella resa: chiede troppo al suo giovane protagonista (di fatto presente in ogni inquadratura) ed abusa spesso e volentieri di ralenti e lirismi alla lunga stucchevoli.  Costruito eccessivamente sui primi piani, visivamente chiuso ed ermetico, in una regia che non sempre riesce ad andare di pari passo con le emozioni e che manca di slancio proprio nel momento in cui vuole mostrare i rapporti con il “Padre”, che resta più figura che sostanza.

Riassumendo, Il MittelCinemFest 2020 ha colto nel segno, mettendo al centro il tema della famiglia, quella di ieri e di oggi, nelle sue mille sfaccettature. Un festival che ogni anno si supera in termini qualitativi, e che in questa edizione è stato particolarmente interessante, dando spunto a opinioni, discussioni e pensieri diversi. Complimenti.

Emanuele Ruggiero

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