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Il regista Francesco Miccichè a Praga per presentare “Compromessi Sposi”

Mittelcinemafest 2019

Compromessi Sposi è il terzo film del regista Francesco Miccichè, una commedia tutta da ridere con gli attori Vincenzo Salemme e Diego Abatantuomo. Il film, uscito nelle sale italiane nel gennaio di quest’anno riscontrando un buon successo di pubblico, è stato proiettato venerdì 29 novembre nello storico cinema Lucerna di Praga, nell’ambito della VII edizione del MittelCinemaFest, alla presenza del regista. Lo abbiamo incontrato, durante i suoi giorni di permanenza nella capitale ceca, per porgli alcune domande sul film.

 

Compromessi sposi è la sua terza commedia, terza in pochissimi anni. Possiamo considerarlo il film della raggiunta maturità artistica di Francesco Miccichè?

Non saprei, la crescita artistica probabilmente è una di quelle cose che si possono vedere solo ex post, è difficile capirlo durante. Nella mia carriera mi sono occupato di tante cose diverse: documentari, fiction, docufiction, televisione, quindi faccio ancora fatica a definirmi, diciamo che sono un regista eclettico. Rispetto ai precedenti, questo è un film che non ho scritto. Ho accettato perché c’era la possibilità di lavorare con un bel cast, perché la storia era molto classica ma permetteva di portare sullo schermo alcune situazioni divertenti.

Compromessi sposi ha una comicità diversa dai suoi lavori precedenti, soprattutto rispetto a “Loro chi”, il suo primo film.

Esattamente. Loro chi era una commedia/thriller, un giallo strano e curioso. Ricchi di fantasia, che è il secondo film che ho fatto con Sergio Castellitto e Sabrina Ferilli, è invece più simile a Compromessi sposi. Entrambe sono delle commedie vere e proprie, ispirate alla nostra storia, alla storia del nostro cinema. Nel primo caso ho seguito le orme di alcuni padri della commedia italiana come Dino Risi e Mario Monicelli mentre in Compromessi sposi è evidente il riferimento a Totò, Fabrizi e i giovani di una volta.

È riuscito a mettere insieme, per la prima volta, due grandi interpreti della commedia italiana: Diego Abatantuono e Vincenzo Salemme. Quanto è stato stimolante lavorare con loro?

Il fatto di avere questi due grandi attori è stata la ragione principale che mi ha convinto ad accettare questo film che ha una storia molto classica: con due padri, Abatantuono e Salemme, uno del Nord e l’altro del Sud, che cercano di impedire un matrimonio che “non s’ha da fare”. Non è stato sicuramente facile lavorare con questi grandi attori perché mi sono ritrovato sul set un Diego che si svegliava sempre molto tardi, sostenendo di non riuscire a far ridere nelle prime ore del mattino e un Vincenzo che, al contrario, è un metodico, un tipo molto preciso che si svegliava prestissimo ma che poi alla sera non ce la faceva più. Ovviamente, a parte queste piccole difficoltà organizzative, lavorare con loro è stato bello perché entrambi hanno un talento incredibile. Vincenzo viene dalla scuola di Eduardo De Filippo, ha una storia eccezionale di commedia e un modo di recitare che, a mio avviso, potrebbe portarlo ad essere anche un grandissimo attore drammatico. Un po’ come Diego, che ha fatto anche film drammatici importanti con Pupi Avati e Salvatores.

Entrambi i protagonisti del tuo film hanno alle spalle una lunghissima carriera, Salemme, in particolare, lo abbiamo spesso visto anche nelle vesti di regista. Quanto è utile per un regista trovarsi a dirigere un “collega”, possono esserci delle interferenze?

Penso che queste interferenze dipendano soprattutto da chi si ha di fronte: Vincenzo è un grande professionista che scinde perfettamente la professione di regista da quella di attore. Però mi è capitato anche di dirigere registi come Sergio Castellitto che invece sono molto più propositivi, chiaramente senza dar fastidio. Questi attori, a prescindere dal loro passato di registi, hanno una tale esperienza che arrivano sul set e ogni volta possono offrirti delle soluzioni, basta solo essere bravi a cogliere e sfruttare questa loro competenza.

Ancora una volta la dicotomia Nord/Sud è protagonista della commedia all’italiana, uno stereotipo che continua a far ridere. Secondo lei perché funziona?

Ne parlavo proprio ieri, qui a Praga, con il mio collega Francesco Falaschi, l’Italia è un paese di comuni dove le differenze sono evidenti perfino tra un quartiere e un altro, perfino tra paesini. La macrodifferenza, anche culturale, che c’è tra un milanese e un napoletano è talmente grossa che offre sempre un contrasto, diventa fonte di comicità costante. Il pubblico si rivede in queste differenze e noi facciamo cinema per il pubblico.

Oltre alle differenze geografiche, un altro tema centrale di Compromessi sposi è quello delle differenze generazionali e soprattutto del mondo dei giovani. Lei ha già affrontato in passato questo tema in televisione, in particolare con la serie tv I liceali. Cosa ne pensa dei giovani di oggi?

Il discorso sui giovani è molto ampio, non mi sento di esprimere un giudizio definitivo. Nel film abbiamo provato a rappresentare alcuni aspetti di queste nuove generazioni. Ilenia è infatti una ragazza che fa la fashion blogger e posta sui social le foto di tutto quello che fa. Riccardo è interpretato da Lorenzo Zurzolo che nella vita reale è molto popolare sui social, così che durante le riprese venivamo sempre circondati da fan di Lorenzo. Queste nuove professioni vanno sicuramente raccontate perché diverse dalle professioni del passato ma anche perché è fondamentale far capire ai giovani che il mestiere dell’influencer comporta molte responsabilità.

Il film è girato a Formia e Gaeta. Lei è laziale, sono posti cari per lei?

Sì, anche perché il film doveva essere ambientato a Ponza ma scegliendo di girare in autunno abbiamo preferito non correre il rischio di possibili imprevisti climatici che un’isola può riservare e quindi ho insistito perché girassimo a Gaeta, che è un posto che io conoscevo benissimo e che per molti aspetti ricorda molto un’isola. Oltretutto abbiamo trovato un’accoglienza straordinaria da parte di tutti, il sindaco di Gaeta ci ha perfino concesso di girare alcune scene nel suo ufficio.

Lei ha lavorato per tantissimi anni per la televisione, quali sono le differenze sostanziali tra cinema e tv?

Ci sono sicuramente tantissime differenze. Sulla base della mia esperienza posso dire che il cinema nasce soprattutto da una forte necessità di raccontare qualcosa, di raccontare storie. Gli autori e il regista hanno proprio questa esigenza di tirare fuori qualcosa e quindi si entra con il cinema in una dimensione più intima. La televisione invece può trattare grandi temi, anche in modo molto emotivo, ma parte sicuramente da un’esigenza meno personale dell’autore. C’è poi una differenza di linguaggio tra i due canali, normalmente i tempi televisivi sono più stretti rispetto al cinema.

Parlando di docufiction, lei ne ha fatte tante e su temi sociali molto impegnativi. Dove possiamo collocare questo genere tra cinema e televisione?

Questo è un terzo mondo, molto diverso da entrambi. Quelle che io ho fatto su Borsellino, Moro e altri personaggi sono delle docufiction che combinano immagini di repertorio ad interviste e materiale di fiction, è quindi un altro linguaggio. Che poi alla fine tra film o televisione quello che conta davvero è la storia.

Negli ultimi anni ha affrontato tantissimi temi sociali, ha parlato di mafie con le storie di Borsellino e Libero Grassi, di Shoah, di Piazza Fontana (che andrà in onda tra qualche giorno su Rai 1), Aldo Moro, c’è un film che sogna di realizzare in questo ambito?

Ho collaborato con la Rai per molte di queste di opere, progetti che spesso nascono più dall’esigenza di ricordare che da un’intima voglia di scrivere un soggetto. Il 12 dicembre andrà in onda questa docufiction sull’attentato di Piazza Fontana, proprio in occasione del cinquantesimo anniversario di quella strage. In futuro, ancora per la Rai, abbiamo in cantiere un progetto sul Maxiprocesso a Cosa Nostra, quel grande processo che c’è stato tra il 1986 e il 1988 che ha messo alla sbarra per la prima volta la mafia. E poi ho un altro progetto per il cinema che è una commedia molto surreale che non so se mi faranno mai fare.

Parliamo ora della figura di suo padre, Lino Miccichè, apprezzato critico e storico del cinema, a cui ha dedicato anche un documentario. Quanto ha influito sulla sua scelta di intraprendere la carriera di regista?

Con mio padre ho frequentato il cinema praticamente da sempre, però è stato un avvicinamento complicato perché lui era una presenza molto influente in questo mondo. Così ho iniziato ad occuparmi di fotografia e fino alla sua scomparsa mi sono sempre occupato di cose diverse dalla regia. Ho fatto il direttore della fotografia, ho fatto l’operatore e ho fatto tanta televisione. Nel momento in cui lui non c’è stato più mi sono detto pronto per iniziare la carriera da regista di film e fiction. Ogni volta che finisco un progetto mi chiedo cosa ne penserebbe Lino Miccichè e sono certo che il suo giudizio sarebbe troppo influenzato dal suo essere un padre molto amorevole.

Di Martina Magnaldi e Graziano Aloi

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