Il Patto di Roma, siglato l’8-10 aprile 1918, costituisce il superamento del Patto di Londra in base al quale l’Italia era entrata in guerra.
La conseguente costituzione di un “Esercito Czeco-Slovaco” rappresenta il risultato più rilevante della svolta nella politica estera italiana per il riconoscimento del principio di nazionalità.
Il volume riscopre un capitolo a lungo trascurato dalla storiografia sulla Grande Guerra, sovrastato dalla pretestuosa invenzione della “vittoria mutilata”.
Dà ampio rilievo alla figura di Milan Rastislav Štefánik, personalità poliedrica, astronomo ed aviatore, naturalizzato francese ma particolarmente legato all’Italia.
Il Patto di Roma e la Legione ceco-slovacca. Tra Grande Guerra e Nuova Europa.
Autore: Francesco Leoncini
Kellermann Editore
Data pubblicazione: 2014
Collana: Iteranda
Prof. Leoncini, “Il Patto di Roma” non lo conosce nessuno. Come mai ha messo questo titolo?
Fosse solo questo che non si conosce. Ormai gli italiani non conoscono più né la loro storia né il loro Paese. Perché pensa che sappiano dov’è Padula? E’ stato sbeffeggiato e sbertucciato il Risorgimento, ci sono movimenti secessionisti e indipendentisti in ogni regione. “La parola ‘Italia’, scriveva Metternich nel 1847, è una denominazione geografica”. Lo sa invece che in India innalzavano i ritratti di Mazzini nelle manifestazioni anti-britanniche molto tempo prima di Gandhi. Lo sa che il Risorgimento riporta la Penisola, dopo il Rinascimento, al centro dell’attenzione europea e mondiale e costituisce il punto di riferimento per tutte quelle élite politiche e culturali che all’interno delle diverse aree del Continente tendevano a realizzare un processo unitario, con forme di autonomia o di indipendenza, innanzitutto i tedeschi, e poi i polacchi, gli slavi del sud, i romeni, ecc.
E allora il “Patto di Roma”?
E’ uno dei momenti “alti” della storia italiana, assieme al Risorgimento e alla fondazione, nel secondo dopoguerra, della Comunità Europea, con Francia, Germania occidentale e Benelux, grazie all’opera di De Gasperi. Con questa iniziativa siamo stati protagonisti di un grande processo storico, anche se ora ci sono grossi problemi. Analogamente nell’aprile del 1918 l’Italia si pone alla guida di un cambiamento radicale in Europa, decide di mettersi alla testa di tutti quei comitati delle nazionalità soggette all’Impero austro-ungarico sorti all’estero dopo l’inizio del conflitto e che ne volevano la dissoluzione, cambia la sua strategia politica, non più rivolta solo all’annessione di alcune regioni, ma diretta ormai all’abbattimento della Monarchia. Di qui il Congresso di Roma dell’8-10 aprile, che vede uniti assieme agli italiani i cechi, gli slovacchi, i polacchi, gli jugoslavi, i romeni, ma anche esponenti inglesi, francesi, americani, e la successiva Dichiarazione o “Patto”, con il quale si riconosceva l’aspirazione all’indipendenza dei popoli dell’area danubiano – balcanica.
Quindi sono stati i nazionalismi a distruggere l’Austria-Ungheria?
Mi permetta di dire che questa è una gran “balla”. Fino al ’14 i responsabili delle varie componenti nazionali della Monarchia erano disponibili al suo mantenimento in vita. Dove voleva che andassero? Da una parte c’era la Germania, che emergeva potente, dall’altra c’era la Russia zarista. Essi volevano una ristrutturazione dell’Impero in senso federalistico, in modo tale da avere voce in capitolo nel governo. Si era coniata da tempo l’espressione “austroslavismo” per indicare la disponibilità degli slavi a collaborare. Gli stessi socialisti erano d’accordo, vedevano nell’area asburgica la prima possibilità di realizzare l’internazionalismo proletario. Ma le classi dominanti austro-tedesche e magiare non intendevano perdere la loro supremazia, lo Stato non riusciva a trasformarsi da apparato repressivo, di polizia, a Confederazione di popoli. Badi bene l’affermazione del principio di nazionalità non significa “nazionalismo”. Vi è un’ ”autocoscienza nazionale” che emerge a poco a poco in tutti i popoli a partire dal Romanticismo, succede a tutti, a noi, ai tedeschi e agli altri che citavo prima, è un processo unitario che va di pari passo con esigenze economiche, le unioni doganali, lo Zollverein (1834).
L’Italia diventa capofila del riscatto nazionale di queste popolazioni, ma lo fa per motivi ideali o contingenti?
Certamente c’era una situazione estremamente difficile al fronte. La disfatta di Caporetto aveva spostato la guerra a ridosso di Venezia. La Russia nel marzo si era ritirata negoziando la pace di Brest Litovsk e quindi tutta la potenza di fuoco dell’esercito austro-ungarico poteva venire concentrata sull’area italiana, uno sfondamento in questo settore sarebbe stato decisivo per le sorti del conflitto. Ma tutto questo ha oscurato la presenza e l’attivissimo lavorio della componente politica dell’interventismo democratico che intendeva portare avanti una strategia alternativa a quella del ministro degli Esteri Sonnino e riprendere la tradizione mazziniana di un’alleanza organica con i movimenti di rinascita nazionale delle popolazioni slave (e anche non slave, pensiamo agli albanesi, ai romeni) dell’Europa centrale. La prima monografia sui cechi è del 1915 ad opera di quel grande intellettuale triestino che fu Giani Stuparich nella Collana intitolata “Giovine Europa”, appena fondata da Umberto Zanotti-Bianco, illustre meridionalista ed educatore, con lo pseudonimo di Giorgio d’Acandia, mentre il volume precedente era dedicato all’Albania.
Credo che pochi conoscano in Italia questi due nomi.
Il primo è forse più noto del secondo, ma che dire di altri esponenti come Leonida Bissolati, Francesco Ruffini, Andrea Torre, Giovanni Amendola, Gaetano Salvemini, Giuseppe Prezzolini. Sono questi i promotori instancabili dell’assise romana, del Congresso delle nazionalità, appoggiati dal “Corriere della Sera” e dal presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, che poi invece ritornerà sul vecchio ritornello dell’ottenimento di quanto promesso dal Patto di Londra. Ne sente parlare in tutte queste rievocazioni della Grande Guerra? Per questo Le dicevo prima che gli italiani hanno dimenticato la grande storia, e parlo anche di molti studiosi. C’è troppa gente concentrata su aspetti particolari, sul locale, quello che chiamo “la storiografia sotto casa”, oppure sull’aneddotica, su storie personali e popolari, spacciate per storia sociale e che sono invece troppo spesso la riesumazione dell’antico vezzo provincialistico della nostra cultura. Adesso va di moda parlare della Germania. Sa come lo chiamano in Germania questo genere di ricerche Landeskunde (informazione di paese, regionale), ben diversa dalla Geschichte (la storia).
Lo sa, prof. Leoncini, che il Patto di Londra è a tutt’oggi un oggetto di culto da parte di associazioni patriottiche e ambienti che guardano con nostalgia all’altra sponda dell’Adriatico? E Lei si permette di dire che il Patto di Roma costituisce il superamento del Patto di Londra.
Guardi, nel giro di pochi anni cambia radicalmente il quadro geopolitico. Nel ’15 l’Italia entra in guerra per acquisire certe regioni con le quali avrebbe completato il suo processo unitario, ma non per abbattere la Monarchia, si temeva che si creasse un vuoto nell’area danubiano – balcanica, ma sarebbe stato interessante chiedere ai politici italiani come sarebbe potuta sopravvivere la Monarchia senza il porto di Trieste, a Pola c’era addirittura l’Ammiragliato. Il corso della guerra dimostrò comunque che non si potevano scindere i destini dell’Austria-Ungheria da quelli della Germania, e quindi non si poteva battere questa e salvare l’altra. La strategia di politica internazionale andava quindi completamente rimodulata, e ciò doveva avvenire, e di fatto avvenne a Roma nell’aprile del ’18, appoggiando i comitati che agivano per la creazione di nuovi Stati. Badi bene che questi comitati portavano avanti una prospettiva di integrazione tra le diverse etnie all’interno delle nuove entità statali. Prenda la Cecoslovacchia …
Ecco cosa significano quelle due effigie sui francobolli messi in copertina?
Qui siamo proprio tabula rasa. Mi domando delle volte come si faccia a parlare della Grande Guerra e poi degli Stati successori all’Impero senza conoscere quelli che furono i protagonisti, i maggiori esponenti delle popolazioni coinvolte. Pubblicai nel ’97 l’edizione critica (la prima in assoluto a livello mondiale) del volume programmatico di Tomáš Masaryk, La Nuova Europa. Il punto di vista slavo, scritto proprio nel corso del conflitto, che costituisce una delle analisi più lucide delle cause dello scontro in atto e mostra quali alternative positive si potessero aprire dalla dissoluzione della Monarchia asburgica. Lui vede in prospettiva la creazione di nuove aggregazioni di popoli su base democratica e nuove forme di integrazione in Europa centrale, non più legate all’aspetto dinastico, ma espressione di libere scelte. Bene, ancora oggi Masaryk è un grande sconosciuto in Italia. Il mio collega francese Alain Soubigou, che insegna alla Sorbona, della sua monografia su Masaryk, uscita da Fayard, ha venduto diecimila copie! Questo per dirLe la diversa sensibilità culturale.
Allora i due volti?
Uno è proprio di colui che fu il fondatore della Cecoslovacchia. Divenne già negli ultimi anni dell’Ottocento un punto di riferimento culturale e politico non solo per cechi e slovacchi, ma anche per gli slavi del sud e tutta l’intellighenzia dell’Europa centrale, profondo conoscitore della Russia e legato al liberalismo progressista occidentale. Sposò un’americana e ne acquisì il cognome Garrigue per appoggiarla nella sua battaglia a favore dell’emancipazione femminile. L’altro è Milan Rastislav Štefánik. Anche qui ci sarebbe da ridire. Se Lei va nella centralissima piazza Cavour a Padova trova sul lato sinistro dietro la statua dello statista un palazzo con una lapide piuttosto grande dove è scritto che lì soggiornò durante la Guerra questo esponente slovacco, astronomo, aviatore, naturalizzato francese e diventato generale dell’Armée, ma che operò intensamente proprio in Italia. All’epoca in quel palazzo c’era l’Hotel Savoia. Fu lui a organizzare la Legione ceco-slovacca e avrebbe voluto che l’Italia giocasse un ruolo decisivo nello scacchiere danubiano-balcanico anche dopo il conflitto. Avrebbe dovuto sposare una marchesa romana, Giuliana Benzoni, ma morì prematuramente proprio mentre stava ritornando in patria con un aereo Caproni, in vista di Bratislava, il 4 maggio 1919. Con tutto ciò nessuno lo conosce qui da noi, neanche gli studiosi, certo finché si occupano solo dell’Ortigara e del Monte Grappa …
Lei mi sembra un provocatore
La storia deve essere provocazione, deve essere sostanziata da tensione civile e vigore morale, altrimenti scade in giustapposizione di fatti e fatterelli, va bene per incontri di signore di mezza età oppure diventa espressione di mestieranti il cui merito maggiore è di stampare carta, da distribuire magari anche in consessi accademici. La storia deve essere interpretazione, deve dimostrare qualcosa di nuovo, deve ribaltare i luoghi comuni. In questo caso ce ne sono un sacco. Uno su tutti la “vittoria mutilata”. Pura invenzione. L’Italia aveva avuto tutto, sul confine settentrionale con l’acquisizione del Trentino e del Sud Tirolo e su quello orientale dell’intera Istria, di Fiume (non compresa nel Patto di Londra) e di Zara. Ecco perché hanno censurato il Congresso di Roma e la pacificazione, l’intesa che in quell’occasione vi era stata con gli slavi. Si voleva indebolire fin dall’inizio il nascente Stato dei serbi, croati e sloveni, si chiamerà Jugoslavia dopo il 1929. La richiesta della Dalmazia non rispondeva a nessuna necessità strategica e avrebbe inserito nel Regno una massa ancora maggiore di sloveni e croati, già ce ne sono stati quasi 600.000!
Perché questa “invenzione”?
La gente aveva fame, non c’è solo quella della guerra, ma quella del dopoguerra. Dal punto di vista sociale più dirompente dell’altra, perché ora c’è la pace e le classi popolari, che avevano pagato un prezzo altissimo per il conflitto, volevano cominciare a riprendere a vivere e si manifestavano tutte le tensioni che la guerra aveva in parte sopito. In particolare ai reduci era stata promessa la distribuzione delle terre, la possibilità di trovare un lavoro, ma dopo il massacro i sopravvissuti si trovavano schiacciati dai soliti padroni. Di qui la necessità di dirottare queste agitazioni su rivendicazioni di carattere nazionalistico, del tutto ingiustificate.
All’inizio Lei ha buttato là il nome di Padula. Cosa c’entra? Dov’è?
Temo che da quando è stato abolito il servizio militare gli italiani verranno a conoscere sempre meno il loro Paese. Lei sa che prima con la leva quelli del Sud venivano al Nord e viceversa. Ora anche le gite scolastiche si fanno all’estero, e pure al mare si va in Tunisia o in Egitto. Nella Certosa di San Lorenzo di Padula, all’estremo limite della provincia di Salerno, ai confini con la Basilicata, venne concentrata gran parte dei prigionieri e disertori cechi e slovacchi. E non era un brutto posto! Dichiarato monumento nazionale fin dal 1882, è divenuto recentemente sito dell’UNESCO, ha il più grande chiostro monastico d’Europa. Lo può vedere nell’inserto fotografico del libro. Tra l’altro basterebbe scorrere le immagini delle personalità e degli eventi lì riprodotti per capire l’assoluta rilevanza delle tematiche trattate nel volume, che coinvolgono la storia dal Mezzogiorno all’Europa centrale. I prigionieri delle varie nazionalità vennero distribuiti un po’ ovunque in Italia, fino alla Sicilia, vi è un bel contributo a quest’ultimo riguardo.
Come avvenne il recupero di questo capitolo dimenticato?
Proprio a Padula nel dicembre 2012, con la partecipazione degli ambasciatori delle Repubbliche Ceca e Slovacca e dei capi Ufficio Storico dell’Esercito e della Difesa, venne rievocata, in un importante convegno, la presenza dei militari cechi e slovacchi, che poi andarono a formare la Legione. Essa combatté con noi negli ultimi mesi della guerra e ha avuto l’onore di essere citata nel Bollettino della Vittoria. Si trattava di volontari, considerati traditori dagli austro-ungarici, e che quindi venivano subito giustiziati qualora catturati. Questo avvenne soprattutto nel Trevigiano. Come vede sarebbe ora che si parlasse di Grande Guerra “a tutto campo” ricordando anche il coinvolgimento del Mezzogiorno e delle Isole Maggiori nello sforzo bellico e non solo si girasse intorno al “Triveneto”. C’è molto da fare, questo libro tenta di iniziare un discorso di più ampio respiro.