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“Giusto è colui che non retrocede di fronte agli ostacoli ed è disposto a sacrificarsi per un obiettivo di valore” Intervista con il prof. Ivan M. Havel in occasione della prima Giornata Europea dei Giusti

Ivan M. Havel, fratello del defunto ex presidente Václav Havel, è stato direttore del Centro per gli Studi Teorici dell’Università di Carlo e dell’Accademia delle Scienze della Repubblica Ceca, inoltre insegna presso la Facoltà di Fisica e Matematica dell’Università Carlo IV e dirige la rivista scientifica Vesmír (Cosmo). Si occupa soprattutto della scienza cognitiva e della teoria della scienza al confine con la filosofia, le scienze naturali e l’arte. Lo abbiamo incontrato in occasione della prima Giornata Europea dei Giusti del 6.3. quando presenzierà a Milano alla cerimonia durante la quale suo fratello sarà proclamato Giusto.

 Perché secondo lei suo fratello è capace, ancora oggi, di coinvolgere tante persone, forse anche più che negli ultimi anni della sua vita?

Questo dipende da numerose cose: da una parte non era affatto un politico tradizionale, era un intellettuale la cui fama di  drammaturgo era conosciuta in tutto il mondo, ma soprattutto perché durante la Rivoluzione di Velluto ha preso in mano la regia degli eventi, sfruttando anche le proprie esperienze teatrali, almeno così mi pare. Più avanti ciò ha dato adito alle critiche secondo cui non aveva consultato tutto con tutti, ma allora non era nemmeno possibile fare diversamente. In sostanza la regia degli eventi è stata buona. Anche i suoi discorsi successivi non erano tradizionali, erano frasi molto dirette cariche di pensieri importanti. Per questo le persone lo amavano.

 Quale sua caratteristica aveva il ruolo più importante dal punto di vista umano? Forse il suo particolare charme e il carisma?

Per me è difficile valutare il suo charme e carisma dato che ho vissuto con mio fratello sin dall’infanzia. Ma so che aveva la capacità di indovinare le situazioni e le persone. Con alcune persone si sbagliò, ma quando non si sbagliava era in grado di prevedere a cosa mirassero, perché una volta dicessero la verità e un’altra mentissero, che cosa stessero preparando. I suoi sostenitori ammiravano in lui una certa lungimiranza che all’inizio lo aiutò nelle decisioni strategiche. Sappiamo bene, però, che paradossalmente a volte l’ammirazione è accompagnata dal rifiuto e dall’invidia. Ancora oggi mio fratello ha molti oppositori capeggiati da Václav Klaus, il nostro presidente uscente. Questi gli rinfacciano sempre qualcosa, un esempio è la recente intervista molto aggressiva che Klaus ha rilasciato in Polonia. Non penso, però, che mio fratello avrebbe preso la cosa troppo sul serio. Le ultime elezioni presidenziali in Repubblica Ceca hanno mostrato che quella parte della nazione che si interessa alla cosa pubblica e che va a votare si è divisa in due parti quasi uguali: una esplicitamente incline al messaggio e alla personalità di mio fratello, e l’altra semmai critica nei confronti suoi e della sua epoca e che si interessa soprattutto alla nostra situazione economica che non sta migliorando in modo così radicale come ci si aspettava.

 Che cosa del suo messaggio dovremmo portare sempre con noi e tenere a cuore?

Secondo me si tratta di qualcosa di un livello superiore, ovvero la disponibilità, spesso anche il coraggio, di pensare in modo diverso dal comune. Allontanarsi dalla routine, dal modo comune di ragionare, avere il coraggio di pensare in modo alternativo assumendosi anche il rischio di fallire. In poche parole, superare le frontiere della banalità e dei facili stereotipi. In Václav questo era particolarmente evidente se guardiamo al suo amore per le nuove direzioni nella cultura, l’arte e la scienza. Spesso gli viene rinfacciata la cosiddetta politica non politica, ma sono in pochi a capire correttamente cosa intendesse con ciò. Egli ebbe modo di esprimere i propri pareri politici nel saggio “Il potere dei senza potere” che però fu scritto durante il regime quando la parola “politica” aveva un significato molto diverso da quello che ha in democrazia. Oggi possiamo dire che la “non politicità” della politica va intesa più che altro come la serietà e l’onestà dello sforzo politico. Parole come “il politico” o “la politica” non dovrebbero più riportare alla mente quelle di intrighi, inciuci e comportamenti sempre interessati. Lui non era molto favorevole al sistema partitico ma naturalmente ciò era influenzato dalla posizione centrale che allora aveva il partito comunista.

 In cosa era una persona straordinaria e in cosa, al contrario, era del tutto normale?

Era capace di decidere in fretta sulla base dell’intuizione e di una visione profonda delle cose. Al contrario nella vita familiare era un po’ maldestro. Negli anni ’50, quando iniziò a frequentare con intensità gli artisti, tornava spesso tardi a casa e nostra madre – tra l’altro quest’anno ha festeggiato i 100 anni – non ne era contenta. Da quel periodo gli è rimasta una certa insicurezza nei rapporti familiari. Per quanto riguarda la vita ufficiale aveva un po’ di problemi con la cosiddetta normale agenda degli impegni ufficiali, lasciava che se ne occupasse la sua amministrazione. Preferiva di gran lunga dedicarsi a scrivere i propri discorsi. Non ha mai avuto problemi a scrivere; scrivere i discorsi lo riportava un po’ all’attività letteraria. Grazie a ciò avevano una tale qualità per cui ancora oggi li ricordiamo. Scrivere al computer gli creava un po’ di problemi, in generale aveva un certo timore della tecnologia.

 Quale sua caratteristica le creava problemi?

Non ero felice del fatto che, a partire dall’anno 1990 in pratica fino al suo decesso, era un po’ separato da noi. Mancavano le occasioni per incontrarsi di persona, forse lui si aspettava che io avrei preso l’iniziativa mentre io mi aspettavo che l’avrebbe presa lui. Tutta la vita mia madre desiderava che collaborassimo in qualche modo, magari come i fratelli Čapek, di tanto in tanto ci siamo riusciti, ad esempio in alcune spettacoli teatrali, ma non era quello che lei si aspettava.

 Essere il fratello di un così grande presidente le è stato di aiuto oppure, semmai, di ostacolo?

In piccole alcune cose mi è stato di aiuto. Le persone sono sempre state disposte ad ascoltarmi e a venirmi incontro, d’altra parte non mi piaceva troppo l’aumentato interesse sulla mia persona. Io sono uno scienziato e ho bisogno di concentrarmi e non di parlare continuamente con la gente e andare con loro in giro. Il suo nome mi è stato utile, per esempio, quando come istituto scientifico avevamo bisogno di arrivare a dei contatti con degli esperti stranieri. Era più facile convincere le persone a venire sotto il patrocinio del mio nome. Insomma, ho fatto di necessità virtù. Qui nel mio paese ho poi imparato a distinguere nelle persone il servilismo dal vero interesse a collaborare.

 Parliamo dei giusti. Come sa a Milano suo fratello verrà proclamato giusto in sua presenza. Secondo lei chi è giusto oggi nel contesto dell’attuale civiltà occidentale?

Per me è necessario ricercare il significato di questo concetto soprattutto nell’apertura e nell’imparzialità di una persona. Chi è giusto? Come lo si riconosce? Io credo che giusto sia colui capace di guardare oltre i dettagli, che abbia dentro di sé il senso del bene e del male e che, posto di fronte ad un obiettivo giusto, non retroceda di fronte agli ostacoli. Costui poi è anche disposto a sacrificarsi per una giusta causa. Quest’anno si celebra l’anniversario del sacrificio di Jan Palach del 1969; già allora si discuteva molto se il carattere estremo del suo gesto fosse adeguato all’obiettivo. Io penso che la ragionevolezza intesa come moderazione è una cosa, mentre la giustezza, o la giustizia, sono un’altra. Palach agì identificandosi con la propria natura e con il proprio convincimento.  Già a partire dagli anni ’60 il problema dell’identità fu proprio un tema importante per mio fratello e per il cerchio di persone intorno a lui. Anche alcune sue opere drammatiche mostravano come l’ipocrisia portasse alla perdita dell’identità. Le persone perdono la propria identità e poi non sanno più chi sono.

 Occupiamoci ora di scienza. Le vorrei chiedere se anche in questo campo esistono persone che hanno rischiato per il bene della scienza, come un tempo per esempio Giordano Bruno. Oggi la scienza non è più sotto il controllo della chiesa ed è molto più libera, esistono ancora casi simili?

Naturalmente è difficile traslare al presente un tale spirito di sacrificio. Ci sono state persone che hanno difeso le proprie opinioni ma se sono state perseguitate ciò accadeva semmai per le loro posizioni politiche. Ciononostante anche nella scienza c’è da rischiare, anche se non la vita ma magari la carriera scientifica e il riconoscimento personale. In sostanza si tratta della disponibilità del singolo ad intraprendere strade non percorse. Proprio in questo senso mio fratello fondò il premio VIZE 97 che veniva, e ancora viene, conferito alle personalità, soprattutto del mondo scientifico, che hanno avuto il coraggio di andare oltre la corrente del pensiero unico nel loro campo accademico e, tornate con nuove scoperte, hanno arricchito la propria disciplina. Non sempre questi sforzi sono coronati dal successo, ma ciò non giustifica l’approccio sospettoso di molti colleghi rimasti ancorati al mainstream. Io stesso sono membro della commissione di questo premio e so che spesso abbiamo dovuto affrontare critiche di tutti i tipi.

 Alcuni giorni fa mi sono incontrato con Karol Sidon, rabbino di Praga, tra le altre cose abbiamo parlato anche del Golem. Questo mito parla anche di come, potenzialmente, l’uomo abbia la possibilità di creare qualsiasi cosa, la questione, quindi, è l’uso che farà di tale potere. Che uso facciamo oggi della tecnologia più evoluta, il grande odierno Golem?

A differenza del Golem e di altri casi in cui l’oggetto era la creazione di un essere artificiale, lo sviluppo odierno delle tecnologie informatiche in qualche modo ci sta sfuggendo di mano ma non nel senso che ci minacci direttamente, ma che non siamo in grado di prevederlo, e tantomeno di prevederne la velocità. Solo qualche anno fa nessuno riusciva ad immaginarsi che un giorno il telefono cellulare avrebbe avuto le proprietà che ha oggi. Lo sviluppo è più veloce dell’alternarsi delle generazioni, la qual cosa ha come effetto collaterale il fatto che la generazione più giovane è più capace di quella più vecchia, oggi sono i figli ad insegnare ai genitori ad usare Internet e il computer. Quindi non si tratta dell’idea tradizionale dell’uomo artificiale simile a Dio, la domanda è: quale significato ha per l’uomo? Il paradosso sta nel fatto che da una parte l’uomo sarebbe in grado di creare un suo simile artificiale imitando, così, l’atto della creazione, d’altra parte ciò significherebbe che egli stesso è stato creato così bene da Dio da essere in grado di replicare se stesso. È un dibattito semmai teologico; più concreta, invece, è la domanda dove porti tutto ciò in futuro. Esistono dibattiti sulla cosiddetta singolarità con cui si intende che lo sviluppo rapido dell’intelligenza porterà la medesima ad iniziare a migliorare autonomamente se stessa e questo avverrà ad una tale velocità che l’intelligenza in sostanza crescerà all’infinito. Ma nessuno è in grado di immaginarsi un’intelligenza infinita, parliamo quindi di un paradosso assurdo, irraggiungibile. Io sono critico nei confronti di questi ragionamenti. Questo lato più teorico, però, induce a riflettere anche su problemi più concreti al livello dell’economia, la vita delle persone, la società e le questioni sociali.

 Spesso dall’ottica del pubblico sembra che gli scienziati si nascondano dietro l’idea di non essere responsabili dell’utilizzo cattivo delle loro scoperte. È una specie di alibi oppure lo scienziato ha diritto di dire che spetta alla politica e alla società decidere l’uso da fare dei suoi lavori? O al contrario dovrebbe comunque rispondere di parte di questa responsabilità oggi sempre più grande?

Naturalmente non esiste una risposta definitiva. Soprattutto se parliamo della teoria di qualche campo o, ad esempio, delle fondamenta della fisica. Allora tutti gli utilizzi, positivi e negativi, si appoggiano su determinate basi teoriche. Senza il campo elettromagnetico non ci sarebbero i telefoni e nemmeno i computer, ciò però non significa che chi ci lavorava sopra, come per esempio James Clerk Maxwell, avesse la responsabilità di prevedere gli sviluppi futuri. Se tali preoccupazioni lo avessero frenato nel suo lavoro, oggi non avremmo le lampadine elettriche, le locomotive elettriche e così via. Quindi il teorico dovrebbe essere libero nella propria ricerca. Ma esistono determinate frontiere dove lo scienziato non si occupa più di qualcosa di generale che potrebbe essere usato sia bene che male, ma si occupa direttamente di tali applicazioni. In questo caso egli dovrebbe riflettere bene su quale applicazione sia giusta e quale pericolosa. Naturalmente anche questo può essere problematico dato che a volte i lati negativi non sono subito evidenti. Ad esempio oggi siamo testimoni di un acceso dibattito se le persone debbano avere la possibilità di scaricarsi da Internet i testi e i libri. Ci sono scienziati che dicono “la mia opera appartiene a tutti, che sia quindi accessibile a tutti”. Ma qualcun altro obietta: allora come dobbiamo finanziare la scienza? Poi dipende dall’intuizione e dalla lungimiranza che avrà la persona “giusta” in questione. Magari non saprà motivare le proprie decisioni, ma anni dopo si dimostrerà se aveva ragione oppure no.

 Domande come queste oggi sono di grande attualità, ad esempio, nel campo dell’etica. Lo sviluppo attuale della medicina mira alla possibilità di creare gli organi che abbiamo bisogno di sostituire dalle nostre stesse cellule. Magari tra 100 anni allora saremo in grado di creare una copia esatta di noi stessi, chi sarò poi io e chi sarà essa?

Attualmente è in fase di realizzazione un grande progetto chiamato Blue Brain Project. Trattasi di una simulazione di un cervello umano completo su un computer, neurone dopo neurone. Queste macchine oggi sono così potenti e veloci che questa simulazione non rappresenta più un obiettivo irraggiungibile. La questione è se ci si riuscirà e, qualora sì, in che modo questo cervello/macchina penserà. Formulerà i miei pensieri o avrà i propri? Non lo sappiamo, e proprio questo può essere oggetto di quella lungimiranza e di quella intuizione su come difenderci dalle conseguenze che oggi non siamo in grado di prevedere.

 Qui entra in gioco la questione fondamentale del libero arbitrio, ovvero se questa macchina un giorno sarà talmente autonoma da avere un proprio libero e unico arbitrio e vivrà la propria vita, questo indipendentemente dall’essere umano, oppure se, al contrario, rimarrà dipendente dal proprio creatore che la controlla e le impartisce quei comandi senza i quali non può funzionare.

Sono in corso grandi dibattiti in merito. In realtà il libero arbitrio è legato alla percezione della responsabilità. Chi non ha il libero arbitrio viene anche privato della responsabilità penale. Esistono vari pareri estremi come quello secondo cui, per esempio, nemmeno noi abbiamo il libero arbitrio e che sono i nostri neuroni a decidere tutto della nostra vita. L’altro estremo, in via di principio è quello di concedere, o al contrario rifiutare, la possibilità della libertà alle macchine. Secondo me il problema sta nel grado di consapevolezza che il singolo ha del proprio libero arbitrio. Egli può averlo e non saperlo, così come lo può avere un gatto senza rendersene conto perché non è in grado di riflettere su se stesso e quindi nemmeno sulla propria responsabilità. Il comportamento di un gatto che gioca e si muove per la casa ci può apparire come assolutamente libero. A volte ci può sembrare che anche la macchina abbia un libero arbitrio. Un filosofo può dire che, quindi, ce l’ha, mentre l’altro potrà dire che non significa nulla e che la questione fondamentale è se la macchina sappia o meno di averlo.

 Oggi esistono dei software che sono in grado di creare articoli redazionali oppure musiche di ottimo livello. Non diventeremo un giorno inutili?

Io ho l’impressione che l’essere umano cerchi sempre di essere un passo avanti. Questo significa che non appena i computer sapranno dipingere allora gli artisti vorranno dipingere in modo diverso. Secondo il mio parere la frontiera è da ricercare nella misura in cui l’essere umano è coinvolto in questo processo. Se il computer crea molti disegni e poi io di questi ne scelgo uno che è venuto bene, allora è il mio contributo, il mio senso estetico che mi porta a selezionare l’opera giusta. In fin dei conti anche quando disegno scelgo continuamente il tratto giusto della matita, quindi la scelta c’è sempre, ma in questo caso viene usata in maniera diversa. Grazie ad essa l’essere umano può conservare la propria libertà e il proprio senso estetico.

 In che misura la tecnologia ci impoverisce o, al contrario, ci arricchisce? Facciamo l’esempio della navigazione satellitare: è sicuramente una cosa utile ma può portare ad un indebolimento della nostra capacità di orientarci.

Molto banalmente possiamo vederlo nell’aritmetica. Un tempo le persone erano molto più capaci di sommare, moltiplicare e dividere rispetto ad oggi. Oppure gli editori automatici di testo che trovano gli errori e migliorano da soli quello che abbiamo scritto, noi disimpariamo a farlo. La mia esperienza è che, forse per via della mia pigrizia, non cerco di utilizzare le versioni più moderne dei programmi, non ho voglia di imparare continuamente qualcosa di nuovo. Così utilizzo il computer solo secondo le mie necessità, non gli concedo più potere di quello che ritengo opportuno che abbia e, così, mi riservo una mia individualità. In una città sconosciuta è molto più interessante perdersi che camminare secondo la mappa, ed è meglio camminare secondo la mappa che utilizzare il navigatore. Quando poi trovo qualcosa da solo sono molto più felice di quando lo fa la macchina al posto mio.

 Qualcuno però potrebbe obiettare che anche la mappa è una certa forma di navigazione. Il cacciatore preistorico non aveva nessuna mappa ma era in grado di orientarsi secondo il sole, le stelle, il muschio etc.

E non doveva nemmeno rifletterci sopra. È abbastanza probabile che stiamo perdendo il senso dell’orientamento che non utilizziamo. Ho notato, per fare un esempio, che quando cammino nel bosco e non penso al percorso che ho fatto, allora poi trovo molto più facilmente la via del ritorno rispetto a quando sto attento a dove passo nel tentativo di orientarmi meglio. Queste abilità nascoste vengono interferite dalla coscienza. Chissà quante sono le varie capacità che perdiamo perché sostituite dalle tecnologie, ma poi viene da porsi la domanda se dobbiamo biasimare ciò oppure no. Se la tecnologia sostituisce qualche capacità e in questo modo libera parte del nostro cervello e dei sensi per altre cose interessanti, allora perché no? Un tempo un esercito di monaci copiavano a mano parola dopo parola lo stesso libro e non potevano fare nient’altro che copiare, che vita era questa?

 È vero che perdersi può essere anche stimolante ma proviamo a vedere la cosa dal punto di vista dell’ambiente. Vagabondando spreco più benzina rispetto a quando inserisco la meta nel navigatore e questo mi conduce a destinazione nel modo più economico. D’altra parte le tecnologie aumentano il consumo: oggi i computer costano meno e vengono prodotti con minor materiale ma se ne producono molti di più, le auto sono più pulite ma ne girano milioni di più rispetto ai vecchi modelli maleodoranti. Dov’è l’equilibrio?

È molto difficile indovinare quando l’ambiente soffra di più a causa della produzione di cose che, al contrario, dovrebbero invece proteggere l’ambiente. Quando si lavora a livello sperimentale proviamo qualcosa per migliorare qualcos’altro, di solito questo stesso processo di prova è molto oneroso dal punto di vista degli effetti collaterali. Il dilemma è se il fine giustifica i mezzi oppure no. È difficile dare una risposta, forse è meglio affrontare caso per caso.

 Oggi i paesi ricchi voglioni costringere quelli poveri a limitare i consumi, questi però ribattono che siamo stati noi, in realtà, ad iniziare ad inquinare l’ambiente e che, quando eravamo poveri, non ce ne preoccupavamo. Come uscirne?

Di fatto, però, già soltanto aiutandoli influenziamo il loro modo di vivere, basti pensare agli indiani d’America che abbiamo guastato tentando di insegnar loro il nostro modo di vivere. D’altra parte in alcuni posti c’è la miseria e si dovrebbe fare qualcosa. È una questione di solidarità. Quindi su un piatto della bilancia abbiamo la solidarietà e sull’altro non imporre agli altri popoli l’idea che noi siamo gli unici giusti. È complicato aiutarli senza guastarli.

 Come pensa che avrebbe reagito suo fratello di fronte al ritorno del messaggio di “verità e amore” nella campagna presidenziale?

Penso che si sarebbe divertito perché lui intendeva il concetto di “verità e amore” come una metafora per qualcosa che oggi chiameremmo giustizia. La persona giusta dà realmente la precedenza alla verità e all’amore rispetto alla menzogna e all’odio. Paradossalmente oggi ne ha abusato il nostro stesso presidente uscente Klaus nonostante per 10 anni ne abbia parlato male.

 Ma allora qual è il suo obiettivo? Con una tale insolenza ha offeso molte persone.

Magari lo ha inteso come uno scherzo ma, per come lo conosco, lui non ha il senso dell’humour. Semmai il messaggio che voleva dare è “voi che vi siete sempre nascosti dietro lo slogan della verità e dell’amore adesso dovete rendervi conto che la vera verità e il vero amore sono quelli nostri, quelli di Zeman e di Klaus”, ovvero restituire alla verità e all’amore il significato “giusto”, e cosa sia giusto lo sa con esattezza solo Václav Klaus.

 Klaus appoggia personaggi tipo Hájek che ha sostenuto che Václav Havel era un anticristo, adesso ha sostenuto che suo fratello ha rubato dal Castello oppure alla stampa polacca ha detto che rovesciava l’ordine sociale. Purtroppo siamo abituati a tali uscite ma sappiamo anche bene che Klaus è un politico molto intelligente e che è capace di raggiungere i propri obiettivi. A cosa mira secondo lei?

Probabilmente lui si rende conto che quando diffonde in giro qualche insinuazione oppure addirittura una menzogna, come nel caso di quella libreria al Castello, allora poi la popolarità di Václav Havel ne risente nel mondo perché la gente se ne ricorderà. Il pericolo di insinuazioni del genere consiste proprio nel fatto che le persone si ricordano la menzogna e non la sua negazione. Per Klaus è un problema vedere come tutto il mondo si prenda gioco di lui mentre al contempo santifichi mio fratello. Vuole diminuire questa santità per accrescere la propria importanza, forse lo fa in modo incosciente. Per questo non esiterà ad attaccarsi a qualunque cose se sarà convinto che in questo modo potrà reprimere, umiliare e infangare il proprio rivale.

 È possibile che qualcuno in Repubblica Ceca riesca a riempire il grande spazio vuoto lasciato da suo fratello? Il principe ci ha provato in parte.

Il principe sarebbe stato un ottimo ponte di passaggio fino al momento in cui si presenterà la persona giusta. Forse già ora cammina tra di noi, non scoperta, ignorata. Trovare una personalità del genere non sarà facile – viene anche da chiedersi se debba essere cercata oppure se non dobbiamo invece attendere che si manifesti da sola. Io credo che mio fratello non fosse un essere umano particolarmente speciale, persone come lui ce ne sono molte, ma magari non hanno l’occasione, l’opportunità e il coraggio. Certo, nella storia di Václav Havel giocò anche un po’ il caso che lo portò ad essere la persona giusta al momento giusto e nel momento giusto. Ma non fu un caso se egli decise di cogliere questa occasione.

 Perché lei ha scelto la scienza mentre suo fratello ha preso la via degli studi umanistici?

In parte è colpa del caso. La vita mi ha spinto verso la sfera più tecnica e teorica. Ho studiato da meccanico ma ho sempre trovato interessati i fondamenti teorici che richiedevano un approfondimento della logica e della matematica. Quest’ultima mi attirava molto. Anche mio fratello era interessato alla scienza, c’è stato un periodo in cui si era occupato di chimica atomica ma la vita non lo ha messo in situazioni dove avrebbe potuto continuare in questa direzione. Al contrario ebbe modo di conoscere artisti, pittori, scrittori e lì trovò quello che lo interessava maggiormente. Comunque qualcosa di questa scientificità gli è rimasto. È possibile notarlo nelle sue opere teatrali, nella loro costruzione logica, cosa che non tutti riescono ad apprezzare. Essa è pensata nei dettagli e ci si trova sempre una certa esattezza. D’altra parte io, invece, flirto un po’ con l’arte e la letteratura, scrivo saggi e amo giocare con le parole. Eravamo in parte complementari.

Foto: www.fdb.cz
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