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A piedi nudi tra le mangrovie – In viaggio durante il COVID

Di Lucio Cascavilla

UNO. PREMESSA. LA MIA QUARANTENA FU QUELLA CHE FU

CAPITOLO 1

La scelta

 

– E allora? Che cosa facciamo?

Qui a Freetown, in Sierra Leone, ci sono zero casi; il morbo non è ancora arrivato, riferiscono le autorità ai mezzi di informazione. Rimanere, invece di rientrare in Europa, nell’occhio del ciclone dell’infezione, sarebbe saggio.

Mi muovo dal balcone alla camera da letto, otto metri scarsi, in mutande, mentre aspetto una risposta.

Il sudore scende dalle tempie, una goccia si intrufola nell’orecchio e forma una bolla. Stacco il telefono, bagnato, raccolgo la maglietta che indossavo in mattinata per asciugarlo.

In casa non c’è un alito di vento e trentacinque gradi.

Osservo il ventilatore, immobile: non c’è corrente. Come ogni giorno la fornitura si ferma, con svizzera precisione, dalle 9 del mattino alle 6 del pomeriggio. Nove ore senza elettricità; devo ricordarmi di non aprire il frigorifero.

–  È stato confermato? Chiede Abigail, la mia compagna tedesca.

L’Air France tra due giorni sospenderà i voli Freetown- Parigi; Bruxelles Airlines tra tre giorni.

Abbiamo poca scelta: solo cinque compagnie transitano in Sierra Leone.

– Sì, sì… lo ha scritto qualcuno nella chat. Ha ricevuto comunicazione dalla compagnia aerea…

Restiamo in silenzio; la sento respirare, sta pensando a una soluzione.

L’organizzazione per la quale Abigail lavora in Sierra Leone non si è espressa. L’associazione locale dove faccio il volontario e colleziono storie di deportati, ex-richiedenti asilo rifiutati e rispediti al mittente, sta per chiudere i battenti.

Abbiamo un’ultima riunione e poi ci rivedremo tra un mese, se tutto va bene.

– D’accordo Loriano… Io adesso ho un meeting, poi un briefing e subito dopo una conference call. La cosa migliore da fare è parlarne quando sono a casa.

Mi sembra ragionevole.

– Alla fine la nostra idea è rimanere, giusto? Le chiedo.

– Guarda non so cosa sia giusto o meno. Al momento il morbo non è ancora arrivato. Ci lanciamo a capofitto verso il disastro? Non so, anche se…

Appunto, anche se.

In Sierra Leone tutto è ancora aperto. La sera è possibile andare al bar, uno dei tanti in riva al mare, e bere una birra, evitando gli assembramenti.

– Allora aspetto che torni e ne parliamo.

– Tanto c’è ancora Royal Air Maroc che prosegue i voli? Chiede conferma lei.

– No, Royal Air Maroc ha sospeso i voli da ieri.

Il sudore non si ferma. Osservo l’orologio; due ore abbondanti da attendere prima di riottenere l’elettricità.

Mi affaccio sul balcone alla ricerca di refrigerio, osservo la laguna sotto di me. Bassa marea, la brezza serale non si è ancora alzata.

Rientro in casa, saluto Abigail e lascio il telefono sul tavolo per qualche istante.

Poi lo afferro e controllo le notizie.

Contagi aumentati, pazienti in condizioni disperate, morti; in Europa la situazione peggiora di ora in ora. Mi sbaglio: di minuto in minuto.

In Cina migliora e la riapertura è vicina; siamo a ridosso della primavera, i fiori torneranno a sbocciare.

Ricevo un messaggio: Turkish Airlines e Kenya Airlines volano ancora su Freetown, ma Air France ha esaurito i biglietti e Bruxelles Airlines ha gli ultimi due posti disponibili.

Nel momento in cui abbiamo deciso di restare, ho capito di dover partire.

Un brivido; dobbiamo abbandonare il paese, ma come?

 

CAPITOLO 2

La corsa

 

Alle 9.40 vado a correre sulla spiaggia. Trentaquattro gradi centigradi, novanta per cento di umidità. C’è un gruppo di ragazzi che gioca a calcio.
Sono già pronto a rifiutare il loro invito: non posso rivaleggiare con dei diciottenni, atletici, cresciuti sotto questo sole. Si accorgono di me e si fermano a guardarmi, inquieti, facendosi da parte.
Io sorrido.
Il presidente della Sierra Leone è stato categorico in televisione. Il morbo non sarà il nuovo ebola: il paese è sano; la minaccia viene dall’esterno e bisogna chiudersi a riccio.
L’epidemia è giunta con un aereo, dagli USA, anche se non esistono voli diretti.
Chi cazzo è l’infetto che se lo è potuto permettere?

l secondo contaminato è il primario di una clinica privata: la dottoressa che ha visitato il primo paziente.
La clinica è stata chiusa a scopo precauzionale.
Uscire dal paese è impossibile; l’aeroporto è stato sigillato per tre mesi, le frontiere via terra sono controllate dall’esercito.
L’unico luogo che continua a rimanere aperto è il porto commerciale.
I giovani calciatori si incupiscono; qualcuno urla: vattene a casa.
Abbasso lo sguardo per evitare lo sciabordare delle onde, vittime dell’alta marea. Correre è difficoltoso.
Alle volte sono costretto a eludere l’acqua all’ultimo secondo. Salto, accelero o rallento. È inevitabile che qualche onda colpisca le scarpe.
Il pallone mi rimbalza vicino, mentre mi guardano tutti. Io prendo la mira e mi esibisco in un tiro sbilenco per farli riprendere a giocare.
Il più piccolino avrà il doppio della mia muscolatura. Con gli occhiali da sole evito di fissarli. Nessuno ha fatto caso al pallone che è rimbalzato tra loro.
Noi abbiamo cibo, ma non è sicuro rimanere qui.

Per la prima volta loro, che vedono qualunque straniero come un bancomat ambulante, non si avvicinano per la questua. Affretto il passo, ma senza darmela a gambe. Oltre al sudore sento un brivido freddo.
Sono i bianchi che portano il morbo. Devo scappare via, non è sicuro uscire da soli.
Pumui! Mi urla uno di loro.
Uomo bianco di merda, persona non grata.
Dobbiamo trovare un modo per scappare.

 

CAPITOLO 3

In California- Le onde del destino

 

La porta del taxi si era chiusa con uno schiocco sordo e lei aveva mormorato un indirizzo. Il profumo di cocco e lavanda si era propagato nell’abitacolo arrivando fino alle narici di Mohamed che, professionale, l’aveva osservata attraverso lo specchietto retrovisore e aveva affondato il piede sull’acceleratore.

Subito dopo la partenza dell’auto la donna aveva sbottonato la camicia di seta, verde acqua, e aveva cominciato ad aggiustarsi il reggiseno color panna.

L’auto procedeva a ritmo di crociera mentre lui la osservava.
– Mi avevano detto che era normale mettersi a proprio agio su un taxi. Aveva scherzato la donna, per nulla imbarazzata, quando si era accorta che Mohamed le fissava le tette.

I genitori di Rowena si erano trasferiti in California quando lei  aveva sette anni; aveva raccontato mentre era alle prese con l’aerodinamica del reggiseno.
Arrivati a destinazione il taxi aveva accostato, con il motore acceso. Mohamed sorridente aveva intascato la corsa; Rowena gli aveva sventolato sotto il naso un assegno.
Lui lo aveva afferrato, senza girarsi, e lo aveva roteato tra le mani.
– Devi solo consegnare questa lettera.
Mohamed aveva soppesato il plico, fissandole la scollatura.

Lei aveva maneggiato l’incartamento con lunghi guanti bianchi.
Mohamed aveva osservato il suo nome, inciso come beneficiario, e aveva annuito.

Rowena lo aveva ringraziato, aveva mostrato il tesoro della sua scollatura per l’ultima volta, si era riabbottonata la camicia ed era scesa dal taxi.
Mohamed aveva tre figli, due di loro non li vedeva da nove anni. Una volta all’anno, se era fortunato, mandava loro dei soldi; il più grande, Aboubaka, aveva raggiunto buoni risultati e gli aveva chiesto di poter frequentare il college.
Prima di scendere dalla macchina aveva impugnato il telefono:
– Pam? Preparati; ci prendiamo una vacanza. Ho appena ricevuto cinquemila dollari di mancia.
Senza immischiarsi negli affari altrui avrebbe potuto incassare quell’assegno, inviarne metà ai suoi figli, e godersi un weekend aLas Vegas.
Se non fosse entrato in quella villa, sarebbe rimasto in California, a guidare il taxi e a progettare il futuro.
Invece scese dall’auto e suonò il campanello.

 

CAPITOLO 4

Il rientro

 

Appoggio la bottiglia sul tavolino, il sole è sparito oltre il mare. Daphne, la nostra amica, ci ha lasciato due birre fa. La proprietaria del piccolo chiringuito sulla spiaggia mi chiede se ne voglio un’altra.
Il mio fegato da alcolista accetta; non sono ancora sbronzo e ho pisciato solo due volte: posso reggerne altre tre.
Il mio cervello, dal luogo che gestisce tutte le mie dipendenze, brama un’altra bottiglia.
8.12pm. Non c’è tempo; il coprifuoco scatta alle 9.30pm. Siamo usciti senza auto e dobbiamo trovare un taxi o un kehkeh, per rientrare a casa.
Rifiutiamo, la abbracciamo, e ci avviamo sul lungomare, in attesa del mezzo che ci accompagni.
Il traffico è scarso, qualche rivenditore di sigarette si affretta sulla strada; non c’è illuminazione pubblica, solo quella dei bar, alle nove sarà tutto buio.
Cosa potrebbe accadere se ci trovassero in giro?
Punizioni corporali o una multa?
Un volenteroso autista di kehkeh va nella nostra direzione e si accontenta di un euro. Le nuove limitazioni gli impediscono di portare più di due persone alla volta.
Abigail si sistema e poi salgo io.
Sono le 8.24pm, riusciremo a rientrare in tempo?

Una vecchia motocicletta, residuato della guerra civile, con la marmitta sfondata dai troppi sforzi, ci oltrepassa assordandoci. Sobbalza in prossimità del piccolo dosso all’ingresso dell’Atlantic Hotel e, dopo il salto, accelera ancora.
– Quello si va a schiantare. Dice l’autista. – Con questa paura del coprifuoco per arrivare prima a casa passano la notte fuori:in caserma.
Il fuoristrada nero che arriva in direzione opposta suona il clacson. Entrambi stanno correndo. Temono la punizione.

Il motociclista non vede l’auto e, lento, si dirige sull’altra corsia. Il suono del clacson assordante.;il rumore della frenata; L’auto sterza per evitare l’impatto.
Poi la moto si conficca nel muso del fuoristrada.
La Land Cruiser non fa neanche una smorfia. Accenna a un principio di starnuto e si ferma.
L’autista e il suo accompagnatore incolumi, grazie alla cintura di sicurezza, osservano quella bizzarra scultura metallica che si è conficcata nella carrozzeria dell’auto, poi si avvicinano a controllare che il pilota della motocicletta sia ancora in vita.
Il centauro ha fatto un balzo di qualche metro. Il rumore del tre ruote ci impedisce di sentire se si stia lamentando.
Il motociclista è immobile a terra, il casco spaccato. Forse è ubriaco. Si tiene una spalla, ha degli ematomi; c’è del sangue sull’asfalto.
– Se volete posso chiamare l’ambulanza. Dice il nostro autista rallentando, senza fermarsi.
Dobbiamo correre, il coprifuoco non ci permette di prestare soccorso. Il nostro accompagnatore compone un numero e si mette a parlare in krio.
Quei tre non arriveranno a casa prima del coprifuoco, io e Abigail dobbiamo trovare un modo per fuggire.

 

CAPITOLO 5

Il Giappone e l’altro lato

 

– Oh Alex, come va?
– Va male, come deve andare?
– Perché?
– E che ti devo dire…
– Da quello che leggo sui giornali in Cina la situazione si va normalizzando…
– Ma il problema non è il morbo…
– E cos’è?
-Tutta sta rottura di scatole che c’è intorno.
– Ma voi state bene? Sukiyaki come sta? E tua figlia?

– La bambina, Eurasia, sta bene. Mia moglie anche, sta con sua madre e la pancia cresce.
– Ah! Non è con te?
– Forse non ci siamo sentiti in quei giorni ma non è a Canton.
– E come mai?
– Ti ricordi che eravamo tornati in Francia, per salutare i miei, e poi eravamo andati a passare il chunjie a Londra?

– Ah sì, è vero, adesso mi ricordo
– Avevamo comprato il biglietto con un anno di anticipo. Eravamo partiti perché la situazione in Cina sembrava sotto controllo.
– Sì, sì, scusami mi era passato di mente.
– La mamma di Sukiyaki ci ha telefonato che stavamo ancora al ristorante. Pensa che in quel momento stavo salutando tua sorella che avevamo incontrato mentre ci stavamo sedendo.
– Sì, mi avevi anche mandato un messaggio, per dirmi che vi eravate incontrati.
– Ecco non abbiamo nemmeno finito di mangiare il coccodrillo, che siamo dovuti rientrare in albergo: l’apocalisse: il contagio, la segregazione e le zone rosse.
– Ok, quindi avete raccolto armi e bagagli e siete rientrati a casa.
– E no! Siamo rientrati a casa, sì! Ma a casa della mamma di Sukiyaki. Mia suocera aveva già provveduto a pagarci tre biglietti di sola andata per nasconderci in Giappone.
– Ma perché in Giappone?
– Perché subito dopo il capodanno cinese sembrava un posto tranquillo.
– E non potevi fermarti anche tu là?
– Sì, ma il consolato francese ha riaperto e io sono rientrato a lavorare, ma Sukiyaki ed Eurasia, non sono partite…
– E perché?
– Perché c’erano zero casi e sembrava che il contagio non sarebbe mai arrivato in Giappone e ho preferito che rimanessero al sicuro.
– Uhm.
– Perché tu che cosa avresti fatto?
– Non so cosa avrei fatto. E adesso sono ancora là?
– E adesso sono ancora là, anche se è arrivato il contagio.
– E perché non rientrano?
– Perché non posso chiedere a mia moglie incinta di partorire sull’aereo!

 

CAPITOLO 6

Verso la California- Il canto del passato

 

Mohamed ritornò verso il taxi, aprì la portiera, si sedette nell’abitacolo e sorrise; per abitudine osservò nello specchietto retrovisore: un uomo gli puntava una pistola alla nuca.

Alzò lo sguardo e scoprì di essere circondato da quattro poliziotti.
Sentì l’odore acido delle armi che lo avevano come bersaglio; le tette di Rowena lo avevano fatto cadere in trappola.
Era stato buttato a terra e ammanettato con un paio di ginocchia sulla schiena. Aveva avuto paura di rimanere soffocato, anche se era rimasto immobile. Quando era stato spinto in cella aveva capito che il suo destino era segnato.

Il suo viaggio per arrivare negli Stati Uniti era cominciato nove anni prima, ma quello per tornare a casa sarebbe durato un attimo.
Mohamed era partito da Waterloo, alla periferia di Freetown, in auto; radio accesa, musica per tenersi sveglio, due stecche di sigarette, due taniche di benzina, due bottiglie di Johnny Walker e soldi per corrompere le guardie di frontiera che ricevano spiccioli come stipendio.

Aveva una valigetta con 6,714,490 Leoni, circa seicento euro, i risparmi di tutta la vita, per pagare lo strozzino, Abdulay Daramy che gli aveva procurato il biglietto aereo.
Doveva guidare per una ventina di ore, attraversare la Sierra Leone in direzione nord-est, spaccarsi il parco nazionale dell’Upper Niger oltrepassare una decina di città e villaggi in Guinea e poi raggiungere la capitale del Mali.

Dopo sette ore di viaggio quando l’asfalto si era trasformato in sterrato una ruota era esplosa.
L’aveva sostituita senza utilizzare il triangolo per segnalare la sua presenza a bordo strada. Mentre sudava a contatto con l’asfalto rovente era passato un camion; si era fermato per chiedere se avesse bisogno di aiuto e poi era sfrecciato verso il nulla.
A quattro chilometri da Kabala aveva incontrato un check-point; i due militari avevano alzato il filo di ferro per impedirgli di passare, e si erano avvicinati, con il kalashnikov sulla spalla.
Il silenzio era rotto dal ronzio degli insetti che si accalcavano sui corpi.
Mohamed non poteva dirgli che stava lasciando l’Africa con una valigia piena di soldi; aveva offerto una sigaretta a entrambi e dopo avergliela fatta accendere, aveva dato fuoco alla sua.
Il gruzzolo era mimetizzato tra le cianfrusaglie e gli stracci che si stava portando dietro.
Mohamed aveva continuato a parlare con uno dei due militari e, senza esitare, aveva regalato un pacchetto di sigarette a entrambi.
Aveva sorriso di nuovo, il piede sull’acceleratore e via.
Giunto a Kabala, si era sistemato in macchina vicino a un hotel. Il guardiano notturno, dopo aver ricevuto un pacco di sigarette e una mancia da tre dollari, gli aveva permesso di sostare nel parcheggio, ma solo tra le 11 di sera e le 6 di mattina, quando rimaneva solo.
Mohamed si sistemò sul sedile dopo averlo reclinato. La valigia con i soldi era sotto la sua testa.
Si sentiva in ansia, non conosceva i rumori che gli stavano intorno e si svegliava, spaventato, subito dopo aver preso sonno; si metteva seduto, si guardava intorno, cosciente che non ci fosse nulla, e poi tornava ad allungarsi.
Quando il guardiano notturno lo svegliò si accorse che la notte era scivolata via scomoda, con il terrore che qualcuno facesse irruzione nell’auto per rubargli i soldi.
Alle sei era uscito dalla macchina e si era stiracchiato. In giro non c’era nessuno; era buio; il portiere di notte blaterò qualcosa alle sue spalle.

 

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