La scena culturale di Praga si è animata lo scorso 19 giugno con il quarto appuntamento di “Et Cetera | Dialoghi”, la rassegna di incontri pubblici promossa dalla Fondazione Eleutheria, da anni punto di riferimento per il dialogo culturale tra Italia e Repubblica Ceca. Protagonista della serata è stato Alessandro Orsini, noto sociologo e autore italiano, che, intervistato dal Presidente di Eleutheria, Augusto Razetto, ha offerto al pubblico la sua prospettiva critica sulle grandi questioni della contemporaneità. L’evento, parte di un ciclo di dialoghi aperti, ha ribadito il ruolo centrale della Fondazione Eleutheria come piattaforma per il confronto tra idee, culture e visioni. Anche noi di cafeboheme.cz, grazie ad Presidente di Eleutheria, abbiamo avuto l’opportunità di incontrare Orsini per rivolgergli alcune domande.
CB: Dal suo punto di vista di esperto di geopolitica, come interpreta, quali sono le cause e quali i possibili effetti della complessa situazione internazionale generale di questo periodo?
AO: La maggior parte delle attuali instabilità internazionali deriva dalla transizione da un mondo unipolare, dominato dagli Stati Uniti, a un sistema multipolare in cui emergono nuovi attori sulla scena globale. Oltre ai nuovi protagonisti, assistiamo anche al ritorno di potenze tradizionali che, dopo un periodo di declino, hanno recuperato forza e influenza, come nel caso della Russia. In questo scenario, Russia e Cina rappresentano una sfida significativa all’egemonia statunitense. Questa competizione tra grandi potenze contribuisce a creare un clima di forte instabilità internazionale. La crescita economica e politica della Cina, in particolare, è stata così rapida e imponente da espandere la sua influenza in molte aree del mondo, inclusa l’Africa. Gli Stati Uniti, di conseguenza, percepiscono una minaccia ai propri interessi non solo in Asia, ma anche in Africa ed Europa. Questo è il contesto globale più ampio in cui ci muoviamo oggi: un equilibrio di potere in continua evoluzione, caratterizzato da nuove rivalità e da una crescente competizione per l’influenza internazionale.
CB: Come si configura oggi il ruolo degli Stati Uniti nella geopolitica internazionale? In che misura Washington riesce ancora a esercitare una leadership unipolare, e quali sono i limiti strutturali e strategici che mettono in discussione la sua capacità di modellare il sistema internazionale secondo i propri interessi?
AO: Negli ultimi anni, gli Stati Uniti stanno progressivamente perdendo la loro capacità di influenzare gli eventi globali come facevano in passato. Ci sono diverse “partite aperte” a livello internazionale, e non è ancora chiaro come si concluderanno. La guerra in Ucraina è uno degli esempi più significativi di questa situazione. Gli Stati Uniti hanno tentato di orientare gli sviluppi del conflitto secondo i propri interessi, ma la Russia è riuscita a contrastare questi piani, impedendo – almeno per ora – l’ingresso dell’Ucraina nella NATO. Questo rappresenta una significativa battuta d’arresto per la strategia statunitense. Donald Trump, dal canto suo, ha costruito una narrazione secondo cui questa sarebbe una sconfitta dell’Europa, ma in realtà si tratta principalmente di una sconfitta per gli Stati Uniti e per la NATO. Trump non è l’uomo della pace, ma piuttosto colui che si trova a gestire una situazione di difficoltà strategica per l’Occidente in Ucraina. Naturalmente, Trump non può ammettere apertamente questa realtà, quindi preferisce presentare il conflitto come una questione che non riguarda direttamente gli Stati Uniti, quando invece è evidente che Washington è da tempo profondamente coinvolta. La strategia americana per l’inclusione dell’Ucraina nella NATO risale almeno agli anni ’90, e la Russia, con il suo intervento, ha di fatto sconvolto questi piani.
CB: Nel contesto della guerra in Ucraina, fino a che punto è corretto interpretare il conflitto come una „guerra per procura“ tra potenze globali, e quale sarà secondo lei l’evoluzione del conflitto nei prossimi mesi?
AO: Il concetto di “guerra per procura” è spesso frainteso, soprattutto nel dibattito pubblico italiano. Molti sostenitori dell’Ucraina si offendono quando si utilizza questa espressione, ritenendo che sminuisca la volontà e le motivazioni degli ucraini. In realtà, come ha ammesso anche Boris Johnson in un’intervista, il conflitto in Ucraina presenta molte caratteristiche tipiche di una guerra per procura. È importante sottolineare che questo concetto non riguarda le motivazioni degli ucraini, che sono complesse e meriterebbero un’analisi a parte. Parlare di guerra per procura significa riferirsi al comportamento degli attori esterni – Stati Uniti, Unione Europea, Regno Unito – che sostengono e alimentano il conflitto, e non implica affatto che gli ucraini siano meri burattini privi di volontà propria. Gli ucraini combattono per ragioni che possono essere le più diverse: difesa della patria, desiderio di libertà, paura o convinzione profonda. Il fatto che Stati Uniti, NATO e Unione Europea sostengano l’Ucraina non significa che stiano semplicemente “usando” il popolo ucraino per combattere una guerra contro la Russia che non vogliono affrontare direttamente. La realtà è molto più complessa e merita di essere analizzata senza pregiudizi e semplificazioni.
CB: Alla luce di quanto sta accadendo tra Israele, Gaza e Iran, quali saranno nel medio e lungo periodo le ripercussioni regionali e globali e come si ridisegnano oggi gli equilibri geopolitici in Medio Oriente?
AO: Al momento è difficile prevedere se il conflitto tra Israele e Iran si allargherà ulteriormente o se rimarrà circoscritto. Gli equilibri in Medio Oriente sono già in fase di trasformazione, non solo a causa della guerra, ma anche per il crescente coinvolgimento di attori globali come la Cina e la Russia. La presenza cinese nella regione è sempre più rilevante, sia dal punto di vista economico che strategico. Pechino promuove ufficialmente la de-escalation e il dialogo, ma nei fatti mantiene una posizione di sostegno all’Iran, soprattutto per proteggere i propri interessi energetici e infrastrutturali. Un eventuale crollo del regime iraniano e l’ascesa di un governo filo-occidentale rappresenterebbero un danno enorme per la Cina, che perderebbe un alleato chiave nella regione e vedrebbe minacciata la stabilità dei corridoi energetici eurasiatici. Anche la Russia ha rafforzato il proprio asse strategico con Teheran. Mosca sostiene apertamente l’Iran e si è proposta come mediatrice nel conflitto, ma ha anche avvertito che eventuali attacchi diretti contro la leadership iraniana avrebbero gravi conseguenze L’alleanza tra Russia e Iran rappresenta un chiaro tentativo di contrastare l’influenza occidentale in Medio Oriente e di ridefinire gli equilibri regionali. Nonostante queste dinamiche, gli Stati Uniti mantengono ancora un ruolo centrale nella regione, con una presenza militare significativa e la capacità di influenzare gli sviluppi politici e militari.
CB: Guardando alla traiettoria di ascesa economica, tecnologica e militare della Cina, unita alla sua crescente proiezione globale e nello specifico nel Mar Cinese Meridionale e su Taiwan, è plausibile ipotizzare che Pechino sia destinata a diventare la potenza egemone del XXI secolo? In che misura il modello cinese di potere — basato su una combinazione di autoritarismo politico, capitalismo di Stato e soft power selettivo — può realmente competere con l’egemonia liberal-democratica occidentale?
AO: Personalmente, non credo che la Cina riuscirà a scalzare completamente gli Stati Uniti dal loro ruolo di potenza globale dominante. L’idea che la Cina possa sostituirsi agli Stati Uniti, arrivando addirittura a sottometterli, appare poco realistica, anche perché ciò implicherebbe un controllo totale anche su regioni come l’Europa e il Sud America, cosa estremamente improbabile. Piuttosto, immagino un futuro caratterizzato da un nuovo equilibrio globale, in cui le aree di influenza verranno ridisegnate e le grandi potenze si troveranno a dover convivere e bilanciarsi a vicenda. Non vedo all’orizzonte un mondo in cui gli Stati Uniti perdano completamente la loro rilevanza o in cui si affermi un nuovo ordine unipolare dominato dalla Cina. È possibile che gli Stati Uniti si ritirino da alcune aree o ridimensionino la loro presenza in determinati contesti, ma resteranno comunque un attore fondamentale e influente nella politica internazionale per molto tempo ancora.
CB: Vorrei porle una domanda che ritengo particolarmente importante: alla luce di quanto ha detto, non è possibile che, alla fine, siano solo Cina e Stati Uniti a dominare lo scenario globale? Mi riferisco in particolare al settore tecnologico, dove il possesso e il controllo delle tecnologie chiave – come i semiconduttori, l’intelligenza artificiale e le altre tecnologie emergenti – sembrano essere concentrati proprio tra queste due superpotenze. È plausibile, secondo lei, che la sfida per la leadership tecnologica e, di conseguenza, per il dominio di settori strategici come lo spazio, si giochi esclusivamente tra Cina e Stati Uniti, lasciando gli altri paesi in una posizione marginale?
È una possibilità concreta, soprattutto se consideriamo la centralità che tecnologia e innovazione hanno assunto nella competizione globale. Cina e Stati Uniti sono indubbiamente i due principali attori in settori strategici come i semiconduttori, l’intelligenza artificiale e le infrastrutture digitali, e detengono risorse, know-how e capacità di investimento che difficilmente altri paesi possono eguagliare nel breve termine. Tuttavia, il sistema internazionale appare sempre più multipolare e frammentato. Se è vero che Cina e Stati Uniti guidano la corsa tecnologica, non bisogna sottovalutare il ruolo di altri attori – come l’Unione Europea, il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan e Israele – che continuano a esercitare un’influenza significativa in settori specifici. In definitiva, il futuro dipenderà anche dalle scelte strategiche di questi paesi e dalla loro capacità di collaborare o competere con le due superpotenze.
CB: In un sistema internazionale sempre più caratterizzato da dinamiche multipolari, da una crescente competizione tra grandi potenze e da fenomeni di frammentazione normativa e strategica, quali ritiene siano le principali sfide strutturali e contingenti che l’Europa deve affrontare per rimanere un attore rilevante sullo scacchiere globale?
La grande sfida per il futuro dell’Europa sarà senza dubbio rappresentata dalla Russia. L’Unione Europea sta ripensando le proprie strategie e persino la propria identità politica in funzione di questa minaccia. Tuttavia, ritengo che l’Europa sia già avviata lungo un percorso di declino, visibile sia sul piano economico che su quello politico e militare. Anche una volta conclusi i piani di rafforzamento militare, il divario di potenza rispetto alla Russia resterà significativo. Si discute molto dei costi di queste strategie, soprattutto per quanto riguarda il trasferimento di risorse da altri settori verso la difesa, una scelta spesso contestata anche perché, ad oggi, manca un piano realmente chiaro e condiviso a livello europeo. I costi sociali di un eventuale aumento massiccio delle spese militari potrebbero essere molto elevati: si rischiano tagli alla spesa sociale e una riduzione del sostegno statale alle fasce più deboli della popolazione. Inoltre, ogni paese europeo si sta posizionando in modo diverso. Ad esempio, il premier spagnolo Sánchez ha recentemente dichiarato che la Spagna non porterà la spesa per la difesa al 5% del PIL, come richiesto dal premier olandese Rutte e auspicato dalla NATO e dalla presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen. Bisognerà quindi vedere quanti paesi saranno disposti a seguire questa linea. Credo comunque che il divario tra Europa e Russia sia troppo ampio e che non abbia molto senso armarsi esclusivamente in funzione della Russia, soprattutto considerando il suo vasto arsenale nucleare. L’idea che l’Europa possa vincere una guerra convenzionale contro la Russia appare irrealistica, anche perché lo sviluppo delle armi nucleari ha cambiato per sempre le strategie e le modalità della guerra. La Russia dispone di circa 5.000-5.500 testate nucleari: immaginare un conflitto diretto, sapendo che potrebbe minacciare o colpire l’Europa con armi nucleari, non è realistico.
CB: Come interpreta le posizioni di paesi come l’India, la Turchia o il Brasile in questo contesto?
AO: Non credo che saranno per sempre degli attori silenziosi o semplici spettatori; la Turchia, in particolare, già comincia a far sentire la propria voce. Ognuno di questi paesi ha strategie proprie. La forza della Turchia sta nella chiarezza degli obiettivi che persegue e, a differenza dell’Unione Europea, la considero un attore importante perché sa pensare politicamente. Penso che, per molti aspetti, la Turchia abbia molto da insegnare all’Europa. Infatti, l’atteggiamento della Turchia nei confronti della guerra in Ucraina è stato molto più pragmatico rispetto a quello adottato dai paesi europei.
CD: Come vede il futuro delle organizzazioni multilaterali come l’ONU o la NATO?
AO: L’ONU è un’organizzazione che presenta moltissimi limiti: spesso non riesce né a prevenire né a risolvere i conflitti. Il problema principale è ben noto: il meccanismo del diritto di veto, che permette a pochi paesi di bloccare qualsiasi decisione rilevante. Questo fa sì che, anche di fronte a situazioni gravissime come un genocidio in corso, l’ONU sia sostanzialmente paralizzata, spesso a causa delle posizioni degli Stati Uniti o di altri membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Per quanto riguarda la NATO, è vero, come hai ricordato, che Trump ha più volte messo in discussione il ruolo dell’Alleanza Atlantica e non è chiaro se intenda effettivamente ridimensionarla o dismetterla. Tuttavia, prevedere il futuro della NATO è difficile, soprattutto perché Trump è un personaggio imprevedibile, che tende a muoversi in base agli eventi più che secondo strategie predefinite. Il problema della NATO oggi è evidente: l’organizzazione conta 32 paesi membri, di cui 29 sono europei e 23 fanno parte dell’Unione Europea. In sostanza, l’Europa rappresenta quasi tutta la NATO, esclusi solo Turchia, Canada e Stati Uniti. La guerra in Ucraina ha messo in luce la debolezza dell’Alleanza. Come spesso dico, le guerre svolgono nella politica internazionale una funzione simile a quella della ricerca nella scienza: si parte da ipotesi, che poi vengono messe alla prova dai fatti. In questo caso, siamo entrati nel conflitto ucraino con l’idea che la Russia fosse estremamente debole e la NATO molto forte. La realtà si è rivelata diversa: abbiamo scoperto che l’Europa non dispone di una difesa aerea adeguata e che la produzione di munizioni è largamente insufficiente. Per esempio, Stati Uniti ed Europa insieme producono circa 1,2 milioni di munizioni per artiglieria pesante all’anno, mentre la Russia ne produce circa 3 milioni. Come ha dichiarato Marc Crotte davanti alla Commissione Affari Esteri del Parlamento Europeo nel gennaio 2025, la Russia produce in tre mesi ciò che la NATO produce in un anno. Abbiamo anche visto che non siamo più in grado di sostenere l’Ucraina militarmente come pensavamo, mentre la Russia continua a rafforzarsi sul piano militare. Questa è stata una scoperta impressionante, che ha messo in discussione la percezione di superiorità dell’Occidente. Siamo andati in guerra convinti che la Russia fosse uno “Stato di cartone” con un esercito ridicolo, e ora ci rendiamo conto che non siamo in grado di fronteggiarla efficacemente in Ucraina. Queste riflessioni sono anche al centro del mio libro Ucraina-Palestina. Il terrorismo di Stato nelle relazioni internazionali, dove analizzo come questi complessi di superiorità abbiano influenzato le scelte occidentali.
CB: A proposito di questo tema, mi ha colpito molto l’atteggiamento della Repubblica Ceca, un paese che ha vissuto direttamente il trauma dell’invasione sovietica del 1968 e il socialismo reale. Nonostante il passato e le sue iniziali resistenze all’accoglienza dei profughi da altre aree del mondo, la Repubblica Ceca si è posta fin da subito in prima linea a sostegno dell’Ucraina: ha accolto centinaia di migliaia di rifugiati e ha promosso iniziative concrete come la raccolta di munizioni e il supporto militare, anche grazie al ruolo attivo del presidente Pavel. Secondo lei, questo impegno è motivato principalmente da ragioni storiche, legate al ricordo ancora vivo dell’invasione sovietica, oppure ci sono anche altri fattori che spiegano perché proprio la Repubblica Ceca si sia fatta promotrice di una posizione così netta e determinata contro la Russia, pur non essendo tra i paesi più influenti sullo scenario internazionale?
AO: Le ragioni sono molteplici. Una è sicuramente legata alla storia personale di chi prende le decisioni: il presidente della Repubblica Ceca, ad esempio, ha un percorso che lo porta a sentirsi parte integrante della NATO e a vedere nel progetto dell’Alleanza Atlantica una garanzia di sicurezza. Poi ci sono valutazioni politiche: probabilmente il presidente percepisce la Russia come una minaccia concreta e pericolosa per la Repubblica Ceca, e questo influisce sulle sue scelte. Un altro elemento importante è il clima mediatico e politico interno. Negli ultimi anni, l’opinione pubblica ceca è stata esposta a una narrazione molto forte, veicolata dai media, secondo cui la Russia rappresenta una minaccia imminente, pronta a invadere nuovamente la Repubblica Ceca o la Polonia. In realtà, la Russia non ha mai dichiarato apertamente un’intenzione del genere, ma la percezione del rischio resta molto alta. Il fatto che Putin non abbia mai detto di voler invadere la Repubblica Ceca non basta a rassicurare il governo ceco. La preoccupazione non riguarda solo le dichiarazioni, ma soprattutto le potenzialità della Russia: la sua capacità di mobilitare risorse militari fa paura, come avere un leone accanto – anche se è tranquillo, la sua sola presenza è fonte di inquietudine, perché potrebbe cambiare atteggiamento in qualsiasi momento. Il presidente ceco osserva che la Russia sta rafforzando notevolmente il proprio esercito, che già oggi conta oltre due milioni di effettivi. Si tratta di una sfida significativa. Tuttavia, secondo me, il rischio di una invasione improvvisa dei paesi NATO da parte della Russia non è reale, a meno che non si verifichi un allargamento del conflitto e un coinvolgimento diretto della NATO nella guerra in Ucraina. In quel caso, Putin potrebbe valutare azioni più aggressive, come un’eventuale invasione dei Paesi Baltici. La guerra, però, è una “danza macabra”: le mosse di Putin dipendono anche da quelle dell’Europa e viceversa. Nulla è prestabilito in modo rigido; le strategie si adattano all’evoluzione degli eventi. Lo abbiamo visto in Ucraina, dove le richieste e gli obiettivi di Putin sono cambiati nel tempo, a seconda dell’andamento del conflitto. Quindi, se la Russia dovesse attaccare direttamente un paese NATO, dipenderà dall’evoluzione della guerra e dalle scelte di tutte le parti coinvolte.
CB: Come dovrebbe porsi l’Italia di fronte a questo scenario internazionale in rapido mutamento?
AO: A mio avviso, per l’Italia sarebbe stato opportuno – anche se ormai è troppo tardi – adottare un approccio simile a quello della Turchia, limitandosi agli aiuti umanitari e a un sostegno concreto alla popolazione ucraina, senza fornire armi. Fin dall’inizio del conflitto, avevo proposto che l’Italia investisse le proprie risorse nella costruzione di un grande ospedale dedicato ai bambini ucraini, invece di destinare fondi all’invio di armamenti. Collaboro con grande orgoglio con l’ONG “Aiutiamoli a Vivere”, di ispirazione francescana, che da anni accoglie e sostiene bambini vittime di Chernobyl e di altre emergenze umanitarie. La mia esperienza nel mondo del volontariato, molto più che in quello politico, mi ha portato a ritenere che l’Italia avrebbe potuto offrire un contributo fondamentale in termini di assistenza umanitaria, accogliendo e curando i bambini ucraini e offrendo supporto concreto alle fasce più vulnerabili della popolazione. Se l’Italia avesse seguito questa strada, credo che ne avrebbero tratto beneficio non solo il nostro Paese, ma anche l’Ucraina. Inoltre, l’Unione Europea avrebbe potuto contare su un attore meno coinvolto militarmente e quindi più credibile come possibile mediatore, ruolo che oggi manca proprio perché tutti i principali paesi europei sono direttamente coinvolti nel conflitto.