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Carlo Capalbo (RunCzech): “lo sport è inclusivo, ma serve meno burocrazia e più visione”

Intervista a uno dei principali promotori della corsa su strada in Europa, fondatore della Maratona di Praga e ideatore del circuito SuperHalfs. Tra diplomazia sportiva, politica e sostenibilità, Capalbo racconta la sua visione dello sport come leva culturale, economica e sociale.

Hai portato la Maratona di Praga a livelli internazionali. In che modo la politica ha facilitato o ostacolato questo percorso?
All’inizio la politica non aiuta e spesso non capisce. Quando proponi qualcosa di nuovo, viene visto come un rischio. Devi trovare un sindaco illuminato, aperto all’innovazione, capace di andare oltre.
Nel campo dello sport, la politica potrebbe fare molto di più. Purtroppo, si sono moltiplicate le strutture intermedie e i ruoli inutili. Ci sono troppi funzionari e pochi allenatori: servirebbero più persone operative sul campo.

Hai mai avuto difficoltà a dialogare con le istituzioni politiche?
Certo, le difficoltà ci sono sempre state. Ma se mostri chiaramente i vantaggi per la città e l’amministrazione, riesci ad aprire un dialogo. I benefici economici, sociali e d’immagine sono reali: basta saperli comunicare.

Hai mai sentito pressioni politiche o rifiutato sponsorizzazioni?
Sì, e per fortuna possiamo ancora permetterci il lusso di dire di no. Rifiutiamo non solo sponsor legati ad alcol o tabacco, ma anche energy drink e catene alimentari che promuovono stili di vita non sani. Siamo molto selettivi: vogliamo partner che condividano i nostri valori.

Qual è il ruolo della diplomazia sportiva nel contesto europeo?
Siamo la terza organizzazione in Europa continentale per numero di partecipanti. Venendo da una nazione piccola, non possiamo competere in ricchezza o velocità, ma siamo riconosciuti per la nostra capacità di innovare e questo ci ha reso un modello seguito da molti.

A parte le SuperHalfs, quali progetti l’hanno reso più orgoglioso?
Le SuperHalfs sono una bellissima iniziativa, ma il nostro vero obiettivo è avvicinare lo sport alla gente comune. Oggi c’è un boom di runner, ma molti che hanno partecipato all’ultima maratona di Praga non conosco il nome del vincitore. Ho sempre cercato di colmare questa distanza. Oggi molti campioni africani vengono agli eventi, corrono, vincono e vanno via, mancano le leggende, i volti per cui fare il tifo. Per questo abbiamo creato gli EuroHeroes e le Battles of the Teams: gare dove chiunque può competere e vincere, principalmente pensate a livello europeo. Abbiamo portato il running dalla strada al track con il restart prima e poi con adizero road to records. E il pubblico ha premiato questa visione.

Cosa dovrebbe fare la politica ceca per migliorare lo sport?
Il problema più urgente è l’obesità. Le persone si muovono troppo poco, e questo ha un impatto devastante sulla sanità. La politica dovrebbe investire nello sport, nobilitarlo, introdurlo nella vita dei bambini fin da piccoli. Servirebbe un bonus sportivo alla nascita, per esempio. Un bambino corre perché è felice. Poi arriva la giacca e cravatta, e si ferma. Spesso gli atleti sono ostacolati da insegnanti che non credono nello sport. C’è bisogno di una nuova cultura: prima lo sport era politicizzato, ora va rivalutato come strumento di salute pubblica.

Come valuti l’operato della FIDAL e il suo impatto sul movimento delle maratone in Italia?
Immagina: Roma è uno dei brand più forti al mondo. Eppure, fino a poco tempo fa, la maratona romana faticava a raggiungere i 15.000 iscritti, vendendo i pettorali fino all’ultimo giorno. Nel frattempo, maratone come quella di Berlino, in Europa, esaurivano i 50.000 posti in poche ore. La federazione italiana aveva ingessato il mercato, impoverendolo. Organizzare eventi con 8.000 partecipanti in Italia veniva paragonato a chi organizzava maratone con 50.000 persone in Europa, e questo la dice lunga sulla differenza di standard.
Negli ultimi anni, con l’arrivo di un presidente più attivo, qualcosa sta finalmente cambiando. Ci sono stati alcuni passi avanti, come l’introduzione della Runcard giornaliera e il riconoscimento del certificato medico anche da altri paesi. Segnali positivi, insomma.
La FIDAL contava un numero elevato di persone, ma la metà di queste si occupava più di politica che di sport. E gli allenatori erano davvero pochi. Sebbene ci sia ancora molta burocrazia, iniziamo finalmente a vedere segni concreti di miglioramento.

Che rapporto ha con Stefano Mei?
Lo rispetto molto. All’inizio ha dovuto affrontare diverse sfide strutturali, ma ora finalmente ha la possibilità di concentrarsi maggiormente sullo sport. C’è ancora molto da fare, e credo che l’atletica italiana debba puntare maggiormente sugli eventi su strada, che sono quelli in grado di attrarre più pubblico, visibilità e risorse. Stefano è consapevole di questo e lo supporta pienamente.

Lo sport inclusivo è davvero una realtà o solo un’idea?
È reale. In uno stesso evento trovi il 70enne e il 18enne, il musulmano e il cattolico che corrono fianco a fianco. Non esiste un altro sport così trasversale.
Quando due persone fanno sport insieme, si parlano. E chi si parla, non si odia. La corsa è accessibile, unisce, crea comunità a prescindere dal credo, dal colore della pelle o dalle idee politiche.

Che differenze ha notato nel suo lavoro internazionale?
In Corea del Nord ho incontrato il ministro dello sport: un’esperienza unica. I cinesi, invece, sono estremamente focalizzati e pragmatici. Ognuno ha un approccio diverso, ma tutti stanno cercando di usare lo sport come strumento di politica e comunicazione.

Cosa pensa dell’impatto della tecnologia in questo tipo di eventi? Recentemente, per esempio, a Pechino hanno corso insieme a robot: le è piaciuta questa iniziativa?
L’obiettivo è sempre quello di rendere la corsa più vicina ed accessibile alle persone. Quindici anni fa lanciammo la Digital Marathon: partimmo in sei da qui per Tokyo per presentare il progetto. Fu un’idea visionaria, e contribuì a far parlare della corsa in modo nuovo.
Quando incuriosisci le persone, le avvicini. E questo è il vero valore della tecnologia nello sport: creare connessioni, coinvolgere chi prima era distante.

Il tema dell’impatto ambientale di queste manifestazioni è reale. Come si pone nei confronti di questa problematica?
È una questione concreta, che non possiamo ignorare. Prima dell’evento, le persone arrivano in aereo o in auto, e questo ha un peso.
Però cerchiamo di fare la nostra parte: usiamo bicchieri compostabili, che si buttano nell’umido, non solo riciclabili. Abbiamo convenzioni con i treni qui in Repubblica Ceca per incentivare il trasporto sostenibile.
Mi piacerebbe portare lo stesso modello anche in Italia: per esempio, per l’evento di Napoli del 28 febbraio – che si terrà due settimane prima della Maratona di Roma – vorrei attivare una collaborazione con Italo o Trenitalia. Ogni piccolo passo può fare la differenza.

Tifa più per gli atleti italiani o cechi?
I miei ragazzi li ho visti crescere. Come Runczech abbiamo sempre supportato gli allenamenti di atleti come Eva Vrabcová o Patrik Vebr, organizzando per loro anche numerose trasferte internazionali, e ci sono molto affezionato. Quindi, a livello personale, tifo per loro. Ma a livello globale, inutile negarlo: per me gli atleti italiani sono i migliori, vanno fortissimo.

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