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Le notti a Malá Strana di Peppe Voltarelli

Peppe Voltarelli, classe 1969, è un artista poliedrico che nel corso della sua lunga carriera si è sempre messo in discussione non solo come musicista, ma anche cimentandosi con altre forme artistiche come la scrittura, il cinema e il teatro. Con all’attivo 3 album da solista, 7 con Il Parto delle Nuvole Pesanti, 4 libri e molte partecipazioni a progetti artistici anche in veste di attore, Peppe Voltarelli ha ricevuto vari premi e riconoscimenti importanti come la Targa Tenco 2010. Sempre in giro per il mondo per concerti, Peppe è anche un attento studioso delle comunità italiane che dalla Germania all’Argentina, dalla Repubblica Ceca al Canada, partecipano in massa ai suoi spettacoli. Ma tra i tanti luoghi che Peppe Voltarelli visita, ce n’è uno che dice di amare particolarmente, al punto da dedicargli un album: Praga. Ed è proprio a Praga, in una delle sue tante notti a Malá Strana, che lo abbiamo incontrato.

Peppe, cosa rappresenta per te l’arte e cosa ti ha spinto ad intraprendere questo tuo personale percorso interpretativo?

P.V. L’arte per me è stata un pretesto per fare una vita migliore; un progetto di emancipazione non solo intellettuale, ma anche “fisica”, nel senso che mi ha permesso di andarmene dalla Calabria e di esplorare nuove città, nuove culture, consentendomi di vivere di questo e di dare un’ulteriore dignità al coraggio di aver intrapreso questa strada. L’essere poliedrico fa parte di un disegno che negli anni si è affinato partendo dall’esperienza di un semplice rocker di provincia che a un certo punto si è reso conto che oltre al rock & roll esisteva anche la necessità di impegnarsi per la propria terra. Era giusto spendermi per restituire alla mia terra tutto ciò che di essa io avevo usato nell’espressione: parlo del dialetto, delle storie, di tutto ciò che è Sud, Meridione e Calabria. L’arte mi serve per approfondire questo percorso.

 

Le tue sonorità sono il frutto dell’unione e della sperimentazione di vari generi che vanno dal folk rock, al genere sperimentale “tarantella punk”,  fino a sonorità più blues, quali si trovano nel tuo ultimo album. Stili diversi, ma che attingono tutti al patrimonio della musica popolare mediterranea. Che tipo di ricerca musicale c’è dietro la musica di Peppe Voltarelli?

 
P.V.  Il mio percorso di ricerca è partito da un approccio legato molto al punk, al rock e quindi ad un’attitudine di ribellione sociale; il giorno in cui invece ho capito che si poteva cantare Bob Dylan come avrebbe potuto fare Otello Profazio ed avere la stessa forza, lo stesso senso, allora ho iniziato a valorizzare tutto il patrimonio e a scavare, e quindi mi sono reso conto che l’essenza che nei Sex Pistols era Anarchy in the U.K, per noi poteva essere Raggia, la tarantella punk, la chitarra elettrica ed il ritmo di 6/8. Poi da questo assunto sono iniziati tutta una serie di “scavi” attraverso la ricerca letteraria, la scoperta di personaggi come Saverio Strati, Corrado Alvaro, la collaborazione con Francesco Suriano, autore del testo teatrale Roccu u stortu e attraverso questi scavi la scintilla iniziale ha preso corpo e si è fatta più sostanziosa, finché poi ho avuto la fortuna che due o tre cose si sono unite. Importante è stato l’incontro con il teatro, la scoperta di persone come Cauteruccio che faceva teatro di sperimentazione e nello stesso tempo di ricerca sulla lingua calabrese, ed io ero lì che facevo la stessa cosa con il rock, e quindi ci siamo incontrati e questa cosa ha fatto nascere una sorta di nuovo teatro di sperimentazione sulla lingua calabrese. Questo mi è capitato anche nel cinema: l’incontro con Giuseppe Gagliardi, un regista con il quale stavamo facendo in parallelo le stesse ricerche su quella che è la storia della nostra terra.

 

Oltre ad essere un musicista, ti si potrebbe definire un vero e proprio sociologo, un ricercatore sociale, visti i temi che hai affrontato nei tuoi lavori artistici. Il tema dell’emigrazione italiana, è un tema a te molto caro e parte integrante della tua poetica. Che tipo di Italia hai trovato nei tuoi  numerosissimi viaggi all’estero in cui hai visitato Australia, Rep. ceca, Canada, Argentina…

P.V. Io posso dire che sto conoscendo diverse Italie: l’Italia della “Doichlanda”, l’Italia della partita del Milan la domenica nello sporting club di Berlino o Dortmund, dove poi si mangia tutti insieme la pizza. Però c’è anche un’ Italia impegnata, attenta, che fonda delle associazioni come quella di “Mafia? Nein, Danke!”, in Germania. In Argentina c’è un’ Italia di anziani che si ritrovano alla Pompeya per fare le feste, però nello stesso tempo c’è un sito che si chiama argentina.org che è un sito che viene usato da viaggiatori che, come noi, si spostano per brevi periodi… C’è un Italia molto critica fuori dall’Italia, mi riferisco a tutte quelle persone che sono andate via  non solo per una necessità economica, ma per un rifiuto politico e ideologico della situazione italiana degli ultimi trent’anni. Io mi muovo all’interno di queste varie Italie e cerco di esplorarle senza giudicarle, cerco di raccontarle e nello stesso tempo però mi piace anche un po’ ironizzarci su. Quindi quando si parla di italiani superstar… Comunque, nonostante tutto, come diceva Gaber: “quando vai in giro e sei italiano, la gente pensa che sei simpatico”.

 

Qual è secondo te la differenza tra l’emigrante italiano classico degli anni ’50 e il giovane italiano emigrante all’estero di oggi?

 

P.V.  L’italiano contemporaneo è un italiano assolutamente laureato con spesso più di una laurea, con diversi strumenti tra le mani, spesso si tratta di artisti, di scrittori, di gente che comunque ha una professionalità molto elevata: ingegneri, ecc.… Con un approccio diverso con le lingue. Conoscono dalle 2 alle 4 lingue ed hanno una capacità di muoversi molto elevata. Io posso dire di conoscere almeno una cinquantina di persone che ho incontrato ad esempio a NY e dopo tre anni vivevano a Buenos Aires oppure si sono trasferiti a Sydney; insomma hanno una grande voglia di esplorare che è un po’ nell’indole dell’italiano, non a caso Marco Polo non era tedesco. L’italiano degli anni ’50 era un altro tipo di italiano, con un sistema culturale molto più basico. Quando ad esempio noi andiamo a suonare in luoghi dove c’è l’enclave degli italiani anni’60 si crea una certa barriera comunicativa legata allo stereotipo che sia noi che loro abbiamo portato in giro e che oggi non ci piace più. Ad esempio, in Germania, dove c’è lo stereotipo dell’italiano che gesticola, che canta, che parla ad alta voce, che mangia gli spaghetti… quelle cose che fanno parte della nostra storia, ma che non sono solo quello.

E veniamo adesso a Praga e alla Rep. Ceca in generale. Da cosa nasce il legame che hai con questo Paese e cosa rappresenta per te, visto che nel 2009 è uscito il disco “Duisburg Nantes Praga” il bootleg live, e in seguito hai intitolato il tuo ultimo album Ultima notte a Malá Strana, premiato con la prestigiosa Targa Tenco alla 35° Rassegna della Canzone d’Autore come miglior album in dialetto del 2010

 

P.V. Praga è stato il primo luogo in assoluto fuori dall’Italia dove ho suonato; uno dei primi paesi insieme alla Germania dove sono tornato metodicamente, anche due volte all’anno, a suonare. Qui mi sono reso conto già dall’inizio che nonostante la differenza linguistica, nonostante le radici culturali così diverse, c’era una sorta di accoglienza rispetto a quello che facevo io, una sorta di comprensione e di feedback col pubblico… Che non era il pubblico di emigranti italiani, perché non abbiamo suonato solo a Praga, ma anche a Teplice, Litoměřice e in altri piccoli centri di provincia, a parte Brno… E questa cosa mi ha dato una grande convinzione: cioè che la musica che facevo io poteva vivere anche senza essere spiegata, senza capirne le parole. Devo dire che a Praga ho avuto la fortuna di incontrare una comunità di fuoriusciti, se vogliamo chiamarli così, in maniera simpatica, di gente di tutto il mondo: imprenditori, poeti, amici come John Calkins, Letizia Kostner, Tomáš Míka, che intorno alla mia musica hanno trovato una sorta di convergenza, in questa musica ormai quasi senza radici, perché poi, a furia di girare, non stai più da nessuna parte. Praga per me rappresenta questo tipo di luogo, se vogliamo, un “non luogo” dove delle anime così diverse si danno appuntamento. C’è poi il discorso di quello che è successo qui, della voglia di questo popolo di aprirsi verso l’esterno, io questa cosa l’ho percepita e ancora la percepisco e me ne viene una grande gioia. Anche quando ho partecipato ai veri festival qui, di fronte a questo grande pubblico, ho sempre avuto l’impressione che fosse un pubblico di libertari, amanti del rock e della libertà. Poi a questo album ha collaborato anche Ester Kočičková, una cantante ceca che ha scritto dei versi per la canzone Ultima notte a Malá strana e sempre a Malá Strana poi è nato appunto questo pezzo che era un po’ l’emblema dell’album e dove sono nominati tutti questi personaggi, questi luoghi, il bar Duende…

 

Cosa ha Praga? Perché secondo te questa città continua ad affascinare artisti di ogni genere: musicisti, scrittori, poeti… Cosa ha Praga, rispetto ad altre città, che fa convergere tutte queste persone che vivono di arte, più che in altri luoghi?

 

P.V.  Ma sai, questa cosa ancora la devo capire. Io ho quasi un’attrazione istintiva per questa città, assolutamente non mediata da un fatto letterario: io ho con Praga un rapporto molto spontaneo, lo dico anche con un certo imbarazzo, non ho visitato musei, l’ho vissuta sempre in maniera molto di strada, però penso che, al di là della percezione immediata della bellezza di questo luogo, che si vede camminando semplicemente per strada, c’è qualcos’altro, un’aura, una patina di mistero, di non detto, di non raccontato, che probabilmente ci attrae e ci fa ancora cercare qualcosa.

 

So che hai voluto dedicare la Targa Tenco ad Angelo Vassallo, il Sindaco di Pollica  che è stato assassinato. Io sono di Pollica, conoscevo benissimo Angelo e quindi ci tenevo particolarmente a farti questa domanda. Perché hai voluto dedicare il premio a questa persona?

 

P.V. Ma guarda, la sera prima dell’omicidio Vassallo io suonavo a Scario, che è pochi chilometri da Pollica, e il giorno dopo eravamo sul lungomare in una giornata di sole straordinaria a leggere il giornale, e leggiamo questa notizia che ci ha rovinato… Ci ha reso inutile tutto. Io non lo conoscevo e non sapevo del lavoro che lui stava facendo, la battaglia per l’ambiente e tante altre cose, però mi trovavo lì in quel momento, e quel posto in quel momento ha rappresentato la metafora di tutta la vita del Sud, questo luogo così martoriato, un luogo dove in poco tempo puoi vanificare il lavoro che hai fatto in trent’anni… e quell’episodio ha rappresentato una di quelle cose che quando accadono ti dici: “Non è servito a niente!”.

 

Peppe non preoccuparti, non ti chiederò cos’è “l’onda calabra”, visto che è la domanda alla quale credo tu debba rispondere più spesso. Ti chiederò invece che valore ha il dialetto nella tua musica e se, secondo te, è un punto di forza o un limite nel trasmettere alla gente le tue emozioni, le tue passioni e l’idea della realtà che ti circonda.

P.V.    Il dialetto per me è stato sempre un punto di forza perché è come conoscere un’altra lingua. È una cosa che ti da una consapevolezza molto profonda della tua storia, delle tue origini. Forse dal punto di vista discografico, se penso alla chiusura di alcuni canali radiofonici e di diffusione della musica, sicuramente cantare in dialetto per molti anni in Italia ha rappresentato un limite. Basti pensare al fatto che per esempio a scuola molti bambini si vergognavano di parlare il dialetto perché magari i genitori gli dicevano di parlare solo in italiano. Allora capiamo perché tanti network non hanno mai trasmesso canzoni in dialetto, perché cantare in dialetto era associato ad essere “paesano”,  “tamarro”. Su questa cosa, oggi, per fortuna la storia si sta ribaltando perché vediamo che spesso in classifica ci sono persone che cantano in dialetto, come Van de Sfroos, che canta in dialetto comasco – e quindi in un dialetto anche minore rispetto ad esempio al napoletano –  ed arriva quarto a Sanremo, ha un pubblico incredibile e fa un disco con altri ospiti che cantano in dialetto. Ecco, questa cosa rischia fortunatamente di diventare anche una moda. Il dialetto è sicuramente un valore. Il problema che abbiamo in Italia è un problema di provincialismo culturale: non abbiamo mai dato tanta importanza alle culture locali e quindi il fatto che oggi di questa cosa se ne occupi solo la Lega Nord è un limite della sinistra. La tradizione popolare da sempre è stata un patrimonio di lotta: i canti contadini, i canti di rivolta, i canti partigiani… È un patrimonio che dobbiamo tenere in grande cura, in particolare chi come noi di sinistra ha una sorta di legame storico forte con questo patrimonio. Perché se ai network non gliene frega niente di passare le canzoni in dialetto calabrese, ad un certo punto tu puoi non fregartene niente dei network. Il giorno in cui lo fai e ti senti bene, vuol dire che qualcosa sta cambiando.

 

Il panorama italiano rock attuale?

 

P.V.  In Italia in questo momento c’è una bellissima scena di artisti validi. Posso parlare di artisti che conosco personalmente e con i quali ho avuto il piacere di suonarci insieme. In Calabria c’è uno che si chiama Brunori Sas, che è un cantautore molto brillante, dandy, poetico e al tempo stesso molto ironico e tagliente. Ha vinto anche lui il Ciampi e il Tenco. Poi tra le voci – parlo più della scena del cantautorato perché ultimamente non seguo molto la scena rock –  Roberta Carrieri, Van de Sfross, Erma Castriota e tanta altra gente che lavora sulla parola, sui testi, come fanno i Perturbazione oppure i 24 Grana, grande gruppo napoletano. Poi ci sono artisti che, nonostante la loro lunga carriera, continuano ancora a fare cose molto interessanti e molto”avanti”: Teresa de Sio, Daniele Silvestri, Daniele Sepe… Gente che ha una predisposizione alla ricerca molto spiccata.

Quanto, secondo te, a livello musicale la ricerca pura, la sperimentazione pura,  preclude alcune strade? È vera questa cosa oppure no?

 
 P.V. Guarda: questa cosa può essere vera soltanto se a un certo punto “ci si impalla” e si fa diventare la ricerca una “sega”. Quando la ricerca diventa una “sega”, il meccanismo si impalla. Ma quando la ricerca ti serve per raggiungere l’essenza delle cose, allora ti aiuta a sciogliere i nodi, ti aiuta a capire perché stai suonando quello, perché stai cantando proprio quello. La scrittura, la musica, sono anche un gioco, qualcosa che ti deve far divertire, per cui, se tu ti diverti cercando anche strade nuove, allora quella cosa ti aiuta a capire chi sei, e quando lo capisci, non hai più il bisogno di farti “le pippe” perché quella cosa la devi necessariamente condividere con gli altri.

 

Edited by Letizia Kostner

 

    

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