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Musicafé, suoni dal Mondo, n.4. Vecchioni, innamorato e melanconico.

E non è vero che solo gli altari riescono a far fronte alla morte: neanche fossero il grembo dell’universo, la nascita delle nascite. Perché nell’Oltre, ed è certissimo, pur nella nostra infinita insicurezza, manteniamo intatta e intoccabile la coscienza della parola. E così non fosse negli scaffali di un libraio si troverebbe il segreto riparo: come in un sonno l’occhio, come in un guscio la mandorla.
Vecchioni lo sa e abita nel luogo del mondo negato, in un giallo di grano piuttosto che nel senso posticcio del vivere. È un solitario fanale messo alla prua della nave; un uomo che naviga, per portare in salvo la Poesia, i resti di Rimbaud, l’incanto della lontananza o, per come talvolta è accaduto, la fatica della propria esistenza.
È un uomo innamorato e melanconico, un inquieto che chiede si accenda una figura viva: che sia un treno, un cavallo, una sera intera in una fiamma.
È un figlio, per il padre una medicina d’oro, lo stesso che dopo una mano di dadi potrebbe dire: qui c’è un uomo, e ha un cilindro, un trucco, dopo il vino un singhiozzo; figlio mio la vita è solo una questione di partenze. Una gara, appunto. A colpi di tempo, di chiavi per lo stupore. E tutto si dovrebbe concludere, con le carte le scommesse i sogni: in un tramonto finale e luminoso: “Papà, lasciamo tutto e andiamo via”.
E ancora la lotta contro questo secolo, fatto di destrutturazione del pensiero, di uccisione del sentimento. Per i figli, di tutti, oggetti permanenti nella noia, che hanno gli occhi mutilati e un’insistenza luttuosa: perché rammentino quanto sia comune la notte nell’animo. Perché lui l’ha visto Tommy, tremare nella luce: sembrava un uccello legato per il collo, con quella corda alzata al cielo. Leggero affinché nessuno potesse dargli del dannato.
E come c’è stato anche l’inganno: la toga nera, la stanza nera, il cesso nero, l’insulto nero, la collezione di ombre nere. Il giudice, di nera potente pece.
Vecchioni apre brani come ring, per fare a pugni contro tutte quelle tristezze tumorali che gli hanno addentato la carne: ma è piccola la natura del male se c’è, da un mattino all’altro, quella forza invisibile del cuore; che lascia i suoni, i passi, e magari anche un battibecco, un rimbrotto: contro quel mistero secco che sta tentando di sprangare la porta. È il verso di ogni tumore, mettere intorno le pietre delle gelosie, e tante macerie scure. È la chiamata forte verso la sacra notte.
Ma, a ogni volta, basta una poesia, una singola rima per drizzarsi in piedi: perché un verso è un albero di sapienza e sa come mettersi d’obliquo nel piombo del cielo.
Non è per nulla vero che lui sia riuscito a fare un lavoro completo, una salvezza anche, nel suo e nel cuore degli altri. Perché nell’impeto delle sue camminate tra le stelle e le case gialle di sole ha lasciato un cratere, un dolore si dica, un patimento d’amore.
E ha avuto inganni enormi, quanto le grandi isole, mille mentitori in mezzo agli occhi. E ha posato il suo sguardo in altra parte, come un poeta pensieroso. Ma non ha mai voluto rimuovere le tenaglie dell’angoscia in nessuna parte della sua memoria. Perché la mente dell’uomo ha una sonorità uno spirito, a nessuno basta un calcolo di scavo per scendere fino all’anima.
E anche la speranza oltre la vita, come insegnamento di regolarità nell’amore: per un amico, il padre, una barca intera senza superstiti.
E il tormento a Firenze: in quella stazione, con i binari che gli entravano e uscivano dal cuore.
E sempre la forza infernale, e bella, della conquista. La danza che si riconcorre per chitarra e tamburi.
E si alza quel culo come un poema: lui anche morendo lo avrebbe cantato. Bello come un’opera implacabile, che gli andava incontro come fosse un contatto del paradiso.
E le rondini, le volpi che sono arrivate fino a lui. E poi le notti e l’inverno e i gufi, e utilmente ancora le stazioni.
Nelle luminarie di un palco continua a nascondersi: fino al fragile segnale di un vento notturno, per far volare i coltelli o gli ideali.
E infine il suo sorriso per Nina e Cloe e Francesca: due ali il petto, una farfalla intera.

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